MASSIMA
“nell’ipotesi di accertato grave disturbo della personalità, funzionalmente collegato all’agire e tale da incidere, facendola scemare grandemente, sulla capacità di volere, l’accertamento della circostanza aggravante della premeditazione richiede un approfondito esame delle emergenze processuali che porti ad escludere, con assoluta certezza, che la persistenza del proposito criminoso sia stata concretamente influenzata da uno degli aspetti patologici correlati alla formazione od alla persistenza della volontà criminosa.”
IL CASO
La vicenda trae origine dal ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica del Tribunale di Potenza avverso la sentenza emessa dal Gip del Tribunale citato che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del reato di omicidio volontario e del reato di porto in luogo pubblico di armi con riconoscimento dell’attenuante del vizio parziale di mente ed esclusione dell’aggravante della premeditazione.
Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione con riferimento al disconoscimento della circostanza aggravante della premeditazione ex art. 577 co.1 n.3 c.p. evidenziando che la “lunga meditazione di una reazione” con il “tornare e ritornare sull’idea fissa e ricorrente” rappresenta l’essenza dell’aggravante della premeditazione e la dimostrazione di un fermo e costante radicamento nella psiche dell’imputato -e per un tempo consistente- del proposito criminoso non incompatibile, tra l’altro, con il disturbo (delirante di gelosia e persecutorio) diagnosticato all’imputato.
LA QUESTIONE
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, è intervenuta ribadendo i principi di diritto fissati dalla Corte stessa in tema di incompatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. e l’aggravante della premeditazione ex art.577 co.1 n.3 c.p.
Già il giudice di prime cure aveva reputato che l’aggravante della premeditazione era incompatibile con l’accertato vizio parziale di mente dell’imputato alla luce della giurisprudenza di legittimità secondo cui “l’apparentemente ferma e irrevocabile risoluzione criminosa che connota la premeditazione diviene essa stessa il portato necessitato di processi patologici caratterizzati da deliri e idee ossessive”.
Da un punto di vista fattuale, ai fini dell’inquadramento della vicenda, la decisione impugnata ha messo in evidenza che la manifestazione morbosa di gelosia dell’imputato era incentrata sull’idea che la moglie avesse una relazione con la vittima e che attorno a questa idea ossessiva si fossero sviluppate vistose distorsioni della realtà che si erano spinte fino a indurre lo stesso a coltivare un delirio che, facendogli perdere i contatti col reale, lo induceva a liberarsi del rivale.
Sulla base di tali evenienze, si è quindi congruamente ritenuto che il processo volitivo caratterizzante l’aggravante della premeditazione fosse stato concretamente influenzato dagli aspetti patologici correlati alla formazione e alla persistenza della volontà criminosa.
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte ha dunque ritenuto infondata la doglianza relativa al disconoscimento della circostanza aggravante della premeditazione ribadendo i principi sanciti dalla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la premeditazione può risultare incompatibile con il vizio parziale di mente nella sola ipotesi in cui consista in una manifestazione dell’infermità psichica da cui è affetto l’imputato, come nel caso di specie, nel senso che il proposito coincida con un’idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità.
Segnalazione a cura di Ludovica M. Catena
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