MASSIMA Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità". IL CASO La Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della decisione del giudice di prime cure, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di estorsione, lesioni personali e violenza a pubblico ufficiale, concedendo la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. ritenuta equivalente alla contestata recidiva. Avverso tale pronuncia, il ricorrente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando: la violazione, da parte del giudice di secondo grado, dell’art. 606 c.p.p. lett e) in quanto, limitandosi a motivare l’insussistenza del vizio totale di mente, aveva omesso di valutare la richiesta difensiva di concessione del vizio di natura parziale; il travisamento della prova, costituita dalla perizia psichiatrica, poiché aveva negato che il disturbo della personalità riconosciuto in capo al prevenuto fosse di tale intensità da incidere sulla capacità di intendere e di volere, con conseguente erronea applicazione dei principi giurisprudenziali sanciti dalle Sezioni Unite nella sentenza n.9163 del 2015 ed, infine, l’inesatta applicazione della legge penale, con specifico riferimento alle discipline del vizio di mente (artt. 88-89 c.p.) e della recidiva. LA QUESTIONE Nell’analizzare la questione, il giudice di legittimità stabilisce innanzitutto che la Corte di Appello non aveva mancato di pronunciarsi sulla richiesta di concessione del vizio parziale di mente. E invero, il giudice di secondo grado, dopo aver proceduto alla perizia in fase di rinnovazione dell’istruttoria, aveva escluso non solo il vizio totale di mente ma anche qualsiasi altra compromissione della capacità di intendere e di volere penalmente rilevante, come si può evincere dalle affermazioni estrapolate dalla parte motiva e riportate testualmente dalla Cassazione: “il disturbo della personalità riconosciuto all’imputato non risulta di una gravità ed intensità tale da avere inciso sulla capacità di intendere e di volere (…) così come risulta dalla disamina dei fatti (…) che appaiono essere sintomatici di una spiccata capacità delinquenziale del S. (…) piuttosto che di una grave patologia incidente sulla sua imputabilità.” Con riferimento al secondo ordine di motivi, la Corte cita a sostegno della propria decisione la medesima sentenza richiamata dal prevenuto nel ricorso, evidenziando l’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite in base al quale ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità". Afferma, difatti, che la Corte di Appello di Palermo, aderendo al sopracitato orientamento, aveva proceduto ad un giudizio di fatto, esaminando anche le modalità di consumazione dei delitti posti in essere dall’imputato. Pertanto, il disturbo della personalità, da cui era affetto il prevenuto, seppur concretizzandosi in un comportamento antisociale, non aveva in alcun modo inciso sulla capacità di intendere e di volere al momento della commissione del reato. Il giudice di legittimità richiama, altresì, la giurisprudenza successiva al 2005 in base alla quale gli impulsi dell’azione, pur se riconosciuta come riprovevole dall’agente, devono essere tali da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze. Inoltre, con particolare riferimento al disturbo della personalità, la sentenza n. 18458/2012 Cass. Pen. Sez. II ha stabilito che quest’ultimo, per essere rilevante, deve essere valutato solo ove sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto casualmente determinato da quello specifico disturbo mentale. Applicando tali principi giurisprudenziali al caso di specie, appare chiaramente come le modalità della condotta estorsiva posta in essere dal reo, perpetuata nel tempo al fine di ottenere la cessione di beni di modico valore, escludano che queste siano state sorrette da uno stato mentale incontrollabile. Conformemente, le condotte realizzate in danno dei pubblici ufficiali, allocate in un contesto di chiara volontà di sopraffazione dell’attività degli agenti penitenziari e al fine impedire una perquisizione nei propri confronti, evidenziano la coscienza del reo delle conseguenze delle proprie azioni. Infine, con riferimento al lamentato erroneo riconoscimento della recidiva, la Corte precisa che la sussistenza di quest’ultima è stata stabilita a seguito di una valutazione delle precise circostanze di fatto, non censurabili in sede di legittimità. LA SOLUZIONE La Corte dichiara inammissibile il ricorso a norma dell’art. 606 comma 3 c.p.p. e dispone, per la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento della somma di euro 2000,00 alla Cassa delle ammende. Segnalazione a cura di Gaya Carbone
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