LA MASSIMA
“L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609bis, comma primo, c.p. presuppone una preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.
IL CASO
L’imputato è stato condannato per il reato di cui agli artt. 81 co.2, 609bis e 609ter n1 c.p. perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in qualità di insegnante di inglese che impartiva lezioni private, e quindi con abuso di autorità, aveva costretto due alunne, minori degli anni quattordici, a subire e a compiere su di lui atti sessuali.
Avverso la pronuncia l’imputato ha presentato ricorso per cassazione deducendo la violazione degli artt. 609bis e 609quater c.p. In particolare, ha rilevato che la Corte di Appello non si era conformata all’orientativo interpretativo di legittimità secondo cui l’abuso di autorità di cui all’art.609bis co.1 c.p. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico in mancanza della quale deve trovare applicazione la diversa ipotesi dell’art.609quater c.p.
La Terza Sezione penale rilevata la sussistenza di un contrasto interpretativo in materia ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
LA QUESTIONE
Alle Sezioni Unite è stata posta la seguente questione di diritto: “Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609bis co.1 c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o invece possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.
La Corte ha rilevato che sul punto sono emersi due distinti orientamenti giurisprudenziali. Il primo, facendo propria l’impostazione espressa dalle Sezioni Unite con la sentenza 13/2000, ritiene che l’abuso di autorità di cui all’art. 609bis co.1 c.p., presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico. In particolare, secondo tale impostazione nell’abuso di autorità vi è la costrizione al compimento di atti sessuali la quale invece difetta negli altri casi di violenza caratterizzati da un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima.
Il secondo orientamento, richiamando l’opinione prevalente in dottrina, adotta un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.
LA SOLUZIONE
La soluzione della questione prospettata attiene, in primo luogo, alla interpretazione della locuzione abuso di autorità in relazione al contesto in cui la stessa è collocata.
In particolare, la Corte precisa che l’abuso di autorità considerato al primo comma dell’art. 609bis c.p. è solo quello che determina una vera e propria sopraffazione della volontà della persona che si risolve in una costrizione. Esso, pertanto, va distinto dalla mera induzione a subire o compiere atti sessuali (art 609bis comma 2) e dalla minaccia funzionale alla costrizione menzionate entrambe dalla norma in esame. Invero, mentre la minaccia determina un’efficacia intimidatoria diretta sul soggetto passivo, costretto a compiere o subire l’atto sessuale, la coartazione che consegue all’abuso di autorità trae origine dal particolare contesto relazionale di soggezione tra autore e vittima del reato determinato dal ruolo autoritativo del primo e conseguente alla strumentalizzazione della posizione di supremazia.
In secondo luogo, la Corte respinge l’orientamento restrittivo del concetto di abuso di autorità disattendendo i principali argomenti addotti dalla giurisprudenza a sostegno. In particolare, considera non determinante il richiamo effettuato alla disciplina di cui all’art. 520 codice abrogato sulla qualità di abuso di pubblico ufficiale. La collocazione del delitto di violenza sessuale tra quelli contro la libertà personale e la natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del legislatore di ampliare l’ambito di operatività della fattispecie svincolandola dalla figura del pubblico ufficiale di cui al previgente art. 520 codice abrogato.
La Corte chiarisce inoltre che quando il legislatore ha inteso riferirsi a soggetti che rivestono una posizione autoritativa formale lo ha fatto espressamente così come avviene nell’ipotesi di cui all’art. 608 c.p. Al contrario, nelle altre disposizioni il concetto di autorità è inteso in senso ampio, comprensivo di posizioni di preminenza non necessariamente di derivazione pubblicistica come nel caso dell’art.61 n 11 c.p.
Infine, la Corte considera che, in termini generali, l’autorità ha natura relazionale e presuppone un rapporto tra più soggetti caratterizzato dal fatto che colui che riconosce l’autorità di chi la esercita subisce, senza reagire, gli atti che ne derivano. Pertanto, sostenere che il riconoscimento dell’autorità debba avere esclusivamente natura formale e pubblicistica si porrebbe in contrasto con l’esigenza di massima tutela della libertà sessuale della persona che la legge persegue. Invero, accedendo alla tesi più restrittiva la prevaricazione esercitata dall’agente sulla persona offesa sarebbe valutabile solo se collocabile nell’ambito della minaccia o dell’abuso delle condizioni di inferiorità psichica.
La Corte rileva che la posizione di supremazia cui la norma in esame fa riferimento debba essere interpretata in modo tale da comprendere non solo l’autorità “privata” che deriva dalla legge ma anche quella che si determina in via di fatto. Invero, ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima, posta in essere da una posizione di supremazia, restando in secondo piano la specifica qualità del soggetto agente rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione.
L’interpretazione ampia del concetto di abuso di autorità non si pone in contrasto con il principio di tipicità in quanto la sussistenza oggettiva del rapporto autoritativo deve essere inequivocabilmente dimostrata mediante un’analisi concreta della dinamica dei fatti idonea a porre in luce un rapporto di soggezione effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato. Deve essere altresì dimostrata l’arbitraria utilizzazione del potere dando anche conto della correlazione tra abuso di autorità e le conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa.
In conclusione, la Corte afferma che per la configurabilità del reato di cui all’art.609bis co 1 c.p. occorre dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e vittima diverso dalla mera costrizione fisica e dalla minaccia e induzione, ma anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe in altro contesto consentito. Ne consegue che la valenza coercitiva dell’abuso di autorità rileva tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già esercitata, tanto in quello di relazione indiretta tra autore e vittima del reato quando il primo abusando della sua qualità concorre con un terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa.
Segnalazione a cura di Alessandra Fantauzzi
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