MASSIMA:
“L’ elemento oggettivo del delitto di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, poiché in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non quello di violenza privata. Ne deriva che il delitto di cui all’art. 610 c.p. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il “ il pati” cui la persona offesa sia costretta”.
IL CASO:
La Corte d’appello in parziale riforma della pronuncia di primo grado, emetteva sentenza di non doversi procedere nei confronti di quattro imputate (di cui solo tre appellanti) in ordine ai reati di cui all’ art. 610 c.p., anche nella forma tentata, art. 611 c.p., art. 61 c.p. n.11, art. 593 c.p., perché estinti per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili.
Avverso la predetta decisione proponevano ricorso per cassazione i difensori delle tre imputate appellanti.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, il difensore di una delle imputate deduceva, in relazione al reato di cui all’art. 56 c.p., art. 610 c.p., l’ingiustizia della decisione, avendo il giudice di merito motivato la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato in questione (la minaccia) attribuendo ad un’espressione utilizzata dall’imputata, seppur allusiva, un significato distonico rispetto al senso comune nel contesto di riferimento.
Nello stesso motivo, veniva, altresì, contestata, l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 605 c.p. e 610 c.p., sollecitando, così, l’esercizio da parte del giudice di un potere di riqualificazione.
Con il secondo motivo il difensore lamentava una lacuna motivazionale della sentenza di merito, sia in relazione alla idoneità e non equivocità degli atti ritenuti idonei a configurare l’ipotesi di cui all’art. 56 c.p., art. 610 c.p., oltre che dell’elemento oggettivo e dell’offensività della condotta contestata, con specifico riguardo al delitto di violenza privata ( art. 610 c.p.).
I motivi addotti dalle altre parti ricorrenti si basavano sulle stesse ragioni.
LA QUESTIONE:
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha proceduto principalmente a delineare l’elemento oggettivo del delitto di violenza privata, precisando che il reato in esame non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il “ pati” cui la persona offesa sia costretta; occorre infatti, allo scopo di valutare la reale portata offensiva della condotta, tenere in considerazione una serie di indici rilevanti, quali: il contesto conflittuale, le modalità di estrinsecazione del fatto, nonché la qualifica rivestita dall’imputato.
Inoltre, a corroborare tale principio, la Corte richiama, altresì, un pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità che, ai fini dell’integrazione del delitto di violenza privata, ha precisato che la minaccia non debba, necessariamente, essere verbale o esplicita, potendo consistere, anche, in una violenza “impropria”, esercitata attraverso l’utilizzo di mezzi anomali diretti a generare pressioni sulla volontà altrui.
La Corte, inoltre, precisa che, ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, l’atto prodromico integrante la minaccia è sufficiente che sia idoneo ad incutere timore e sia diretto a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente.
In ultimo, nel percorso motivazionale, la sentenza in commento evidenzia, altresì, la linea di demarcazione esistente tra gli illeciti di cui agli artt. 605 c.p. e 610 c.p., tra i quali sussiste una relazione di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., accomunati dall’elemento materiale della costrizione, con la differenza in relazione al bene giuridico offeso, infatti: l’art. 610 c. p. lede la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo, al contrario, l’art. 605 c.p. lede la libertà di movimento.
LA SOLUZIONE:
La Corte, sulla base delle ragioni di carattere sostanziale evidenziate nel percorso motivazionale, ha ritenuto i ricorsi presentati dalle parti inammissibili, in quanto in larga parte generici e privi di adeguato e penetrante confronto con l’iter motivazionale della sentenza gravata.
Segnalazione a cura di Maria Rita Siani
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