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Diritto Penale

Tutela del possesso, rapina ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Svolgimento a cura di Maria Rita Siani


Il principio generale di autotutela privata esprime una forma di reazione di un soggetto ad una lesione di una situazione giuridicamente rilevante di cui è titolare, generata da un fatto illecito altrui.

In particolare, l’operatività di tale principio consente al privato di farsi giustizia da sé, senza coinvolgimento di alcun soggetto terzo e imparziale, come l’autorità giudiziaria.

La ratio di tale divieto è da ricercare, prevalentemente, nella necessità di scongiurare delle forme di giustizia privata, in modo da riconoscere all’autorità giudiziaria il potere esclusivo di dirimere conflitti tra soggetti.

Nel diritto penale, la conferma dell’operatività divieto generale di autotutela privata trova fondamento normativo nell’art. 392 c.p. che disciplina la fattispecie di reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, punendo la condotta di chi si faccia arbitrariamente ragione da sé, al fine di esercitare un preteso diritto e, potendo ricorrere al giudice, usa violenza sulle cose; allo stesso modo, l’art. 393 c.p., punisce la violenza o minaccia perpetrata nei confronti di persone.

Dall’ analisi delle norme, dunque, emerge quale punto fermo che l’ordinamento non ammette forme di autotutela privata, specie quelle che si manifestino attraverso atteggiamenti socialmente pericolosi.

Nondimeno, ci sono ipotesi tassativamente previsti dalla legge in cui la condotta del reo, che agisce per farsi giustizia da sé, risulta scriminata ai sensi degli artt. 51 ss. c.p., fermo restato che, in ipotesi di superamento dei limiti delle scriminanti, la condotta assumerà rilevanza penale a titolo di esercizio arbitrario.

A propria volta, la fattispecie di cui all’art. 393 c.p. pone dei problemi di coordinamento con il delitto di estorsione, ex art. 629 c.p., e con il delitto di rapina, disciplinato dall’art. 628 c.p.

Il problema si pone perché entrambe le fattispecie di reato si concretizzano, così come si evince dal dato normativo, in una condotta di violenza o di minaccia diretta ad ottenere un bene che è nella disponibilità della vittima del reato, presentando così evidenti punti di contatto con la fattispecie ex art. 393 c.p.

Al fine di delimitare l’ambito di operatività delle due fattispecie occorre, preliminarmente, evidenziare come nella norma descritta dall’art. 393 c.p. la risposta sanzionatoria del legislatore, di fronte ad una condotta che sfocia nell’illecito allorquando venga posta in essere con violenza o minaccia (altrimenti, costituirebbe legittimo esercizio di un diritto), è graduata rispetto a quella prevista per le aggressioni unilaterali e totalmente ingiustificate come nel caso di rapina e di estorsione.

Difatti, sia l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia nella rapina, che il costringimento a fare o ad omettere qualcosa al fine di ottenere un ingiusto profitto, nel reato di estorsione, sono puniti con pene più severe (reclusione da cinque a dieci anni per la rapina e per il reato di estorsione) rispetto a quelle contemplate per la condotta descritta dall’art 393 c.p. (reclusione fino ad un anno).

La giurisprudenza di legittimità, recentemente, ha chiarito che il discrimen tra le fattispecie delittuose in esame risieda nell’ elemento soggettivo: mentre nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni il reo agisce nella ragionevole convinzione di esercitare un preteso diritto legittimo, nel caso di rapina, egli agisce per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, consapevole che l’oggetto della propria pretesa non gli appartiene ed è privo di tutela giuridica.

Oltre al dato soggettivo, declinato dalla giurisprudenza, occorre inoltre che risultino integrati tutti i presupposti che il legislatore ha previsto perché il reo possa beneficiare di un più mite trattamento sanzionatorio a fronte di una condotta violenta o minacciosa.

La disposizione citata fa infatti riferimento all’esercizio di un diritto, inteso come situazione giuridica soggettiva, rilevante per l’ordinamento e meritevole di tutela.

A tal proposito, occorre domandarsi se nel concetto di diritto sia riconducibile, anche, il concetto di possesso e, quindi, una situazione di fatto.

Il possesso è definito come potere di fatto esercitato da un soggetto, titolare di un diritto reale sulla res, che abbia la disponibilità materiale della cosa, nella convinzione di essere l’unico proprietario del bene (animus possidendi).

La dottrina esclude dunque che possa qualificarsi come diritto soggettivo, ponendo così un problema interpretativo in merito all’ambito applicativo dell’art. 393 c.p.

Sul punto sono state elaborate diverse tesi: una prima impostazione, facendo leva sui principi costituzionali di tassatività e di precisione della fattispecie penale, ha sostenuto che una situazione di fatto, pur se giuridicamente tutelata, non possa rientrare nell’ambito applicativo della norma incriminatrice in esame, pena la violazione del divieto di analogia.

A tale impostazione restrittiva la tesi prevalente ha opposto che proprio la tutela che l’ordinamento riconosce al possesso imponga di ritenere che l’esercizio arbitrario di tali legittime facoltà debba rientrare nella fattispecie ex artt. 392 o 393 c.p., a seconda dell’oggetto materiale della condotta (una res o una persona): si è infatti evidenziato che l’effetto di tale interpretazione estensiva è quello di sottrarre la condotta al ben più severo trattamento sanzionatorio di cui agli artt. 629 e 628 c.p., sì da poter ritenere tale soluzione in linea con la ratio garantista dei principi invocati dalla tesi opposta.

Tanto presuppone tuttavia che la condotta criminosa posta in essere dal soggetto agente, con violenza o minaccia alla persona offesa, rientri nell’ambito delle tutele apprestate dall’ordinamento.

Può al riguardo ritenersi che, in caso di spoglio violento, di turbativa o di molestia nel possesso di un bene, la possibilità di ricorrere al giudice che l’ordinamento accorda al possessore, entro un anno dallo spoglio sofferto, per la reintegra o la manutenzione nel possesso, imponga di ritenere applicabile la più mite fattispecie ex art. 393 c.p.

Dunque, qualora il soggetto agisca, senza adire l’autorità giudiziaria per esercitare il proprio diritto di reintegra o di manutenzione nel possesso, usando violenza o minaccia, nella consapevolezza della legittimità della sua pretesa, pone in essere una condotta che esula (nel caso in cui si reimpossessi della res, sottraendola a chi abbia turbato il suo possesso) dalla fattispecie di rapina.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha richiesto che la condotta minacciosa o violenta, volta a reintegrare il possesso, avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del terzo, per l’impellente necessità di ripristinare il possesso perduto e di impedire il consolidamento della nuova situazione possessoria.

Viene in questo modo ristretta l’area applicativa dell’art. 393 c.p., riducendo lo spatium temporis per l’esercizio arbitrario della tutela del possesso all’immediatezza dello spoglio, richiedendosi peraltro, in via del tutto surrettizia, una necessità di ripristino del possesso.

Si tratta tuttavia di requisiti e presupposti che rispecchiano quelli richiesti per la causa di giustificazione della legittima difesa e che, a fronte di una condotta che comunque assume natura delittuosa, pur se punita in maniera più mite, non hanno ragion d’essere e risultano frutto di una interpretazione creativa priva di un valido fondamento normativo, peraltro in malam partem.

Deve invece ritenersi che, decorso il termine di legge per l’esercizio della tutela del possesso, ogni iniziativa del possessore, volta al recupero unilaterale e in autotutela della res, non potrebbe che rientrare nella più grave fattispecie di rapina, poiché la condotta non rientra tra le tutele astrattamente azionabili innanzi all’autorità giudiziaria.


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