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Diritto Penale

Traccia

“Irretroattività sfavorevole e successione di norme penali con effetti processuali, con particolare riferimento ai delitti di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori”


Svolgimento a cura di Alessandra Fantauzzi


Il principio di irretroattività costituisce un fondamentale corollario del principio di legalità e completamento logico dei principi della riserva di legge e della tassatività. Esso fa divieto di applicare la legge penale a fatti verificatesi dopo la sua entrata in vigore.

Tale principio trova il proprio fondamento positivo in primo luogo, nell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile il quale stabilisce in via generale che la legge non ha effetto retroattivo. In secondo luogo, trova riconoscimento a livello costituzionale nell’art. 25 comma 2 Cost. e a livello codicistico nell’art. 2 comma 1 c.p. secondo i quali la norma incriminatrice deve necessariamente precedere la commissione del fatto che costituisce reato. Esso, inoltre, è previsto espressamente dalle fonti di diritto sovrannazionale quali l’art. 7 CEDU e l’art.49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

Secondo la dottrina maggioritaria il principio di irretroattività ha una duplice ratio garantista: da un lato mira a preservare la libertà personale dei consociati impedendo al potere legislativo di punire i comportamenti che, nel momento in cui sono stati posti in essere, non costituivano reato; dall’altro è volto a tutelare la libertà di autodeterminazione del privato assicurandogli la piena ed effettiva conoscenza delle conseguenze dei propri comportamenti.

Nel nostro ordinamento giuridico il divieto di applicazione retroattiva regola la successione delle leggi penali nel tempo. Tuttavia, la dottrina prevalente riconosce al principio in esame natura relativa circoscrivendone la portata alla sola legge penale sfavorevole. In particolare, l’art. 2 c.p., facendo applicazione del principio del favor libertatis, prevede da un lato che la norma penale sfavorevole sopravvenuta non retroagisca dall’altro lato, all’opposto, che la norma favorevole sopravvenuta retroagisca.

Il divieto riguarda tutti gli istituti di diritto sostanziale ma non si applica alle leggi di carattere processuale per le quali vige il contrapposto principio del tempus regit actum. Quest’ultimo stabilisce che ogni atto del procedimento penale è disciplinato dalle norme vigenti nel momento in cui viene posto in essere, anche quando queste risultino diverse da quelle vigenti al momento del fatto oggetto del procedimento.

La qualifica sostanziale o processuale delle norme penali non risulta sempre agevole. Le principali ipotesi in cui si è posto il problema successorio riguardano: le condizioni di procedibilità, le norme in materia di prescrizione, la sospensione condizionale della pena, le misure di sicurezza e le misure cautelari.

Per quanto concerne il quesito posto dalla traccia occorre prendere in considerazione i profili successori relativi agli aggravamenti di pena introdotti dal c.d. Codice Rosso alle fattispecie delittuose di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori.

Si tratta di un’ipotesi di successione penale con effetti processuali nei confronti della quale sono stati avanzati dubbi, in dottrina e in giurisprudenza, circa l’operatività dei principi che regolano la successione di norme nel tempo ovvero della regola del tempus regit actum. Invero, le sopravvenienze normative che modificano la pena edittale prevista per un reato possono incidere in via indiretta sia sulla possibilità di applicare una misura cautelare sia sulla sua durata.

In via preliminare, occorre ricordare che il legislatore richiede il ricorrere di precise condizioni per l’applicazione delle misure cautelari. In particolare, l’art. 273 c.p.p. dispone la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, l’insussistenza di una causa di giustificazione o di non punibilità e di una causa di estinzione del reato o della pena. L’art. 280 c.p.p. richiede la presenza di un certo limite edittale: le misure coercitive possono essere applicate solo quando si procede per delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione superiore nel massimo a tre anni. Diversamente, la custodia cautelare in carcere può essere applicata solo in presenza di delitti puniti con l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Alla luce delle considerazioni svolte, occorre analizzare, in primo luogo, l’ipotesi in cui una norma sopravvenuta modifichi la pena prevista per un reato, diminuendola.

In particolare, si pone il problema di stabilire se, una volta applicata una misura cautelare personale e la norma successiva di favore intervenga a ridurre la pena al di sotto del limite legale, la misura possa continuare ad applicarsi o debba cessarne l’esecuzione.

Ebbene, la dottrina maggioritaria ritiene che in tale ipotesi non sussista un problema di successione di norme processuali: la retroattività della norma sopravvenuta favorevole al reo determina automaticamente il venire meno di una condizione di applicazione della misura cautelare cui consegue la revoca della misura in atto ai sensi dell’art. 299 c.p.p.

Bisogna, dunque, prendere in esame l’opposta ipotesi, ossia quella in cui la norma sostanziale sopravvenuta abbia innalzato la pena detentiva massima, così da superare il limite minimo di tre anni previsto per l’applicazione di una misura cautelare personale o di cinque anni per la custodia cautelare in carcere.

Al riguardo sussistono due diversi orientamenti. Secondo una prima impostazione, data l’impossibilità di applicare la norma sfavorevole in relazione a fatti pregressi in virtù del principio di irretroattività sfavorevole, non si porrebbe alcun problema in merito all’adozione di una misura cautelare personale agli autori di fatti commessi precedentemente all’entrata in vigore della norma.

Un opposto orientamento ritiene, invece, che, stante l’impossibilità di applicare sul piano sostanziale la nuova pena, sarebbe comunque possibile disporre una misura cautelare personale. Tale soluzione trova fondamento nella lettera degli artt. 280 e 287 c.p.p. i quali farebbero riferimento al momento in cui si sta svolgendo il processo e non a quello della commissione del fatto. Invero, le norme processuali, quali quelle che regolano le misure cautelari, non rispondono al principio di irretroattività sfavorevole ma al contrapposto principio del tempus regit actum.

La predetta tesi è stata oggetto di critiche in ragione del fatto che la pena prevista per il delitto per cui si procede deve essere individuata in relazione al tempo in cui il fatto è stato commesso e non in maniera generica. In caso contrario si configurerebbe la violazione dei principi di uguaglianza e di autodeterminazione del singolo.

Le medesime problematiche si pongono con riferimento alla durata delle misure cautelari.

In via preliminare, occorre ricordare che l’art. 303 c.p.p. prevede alla lettera b) i termini massimi di durata della custodia cautelare, vale a dire il termine entro cui deve intervenire la sentenza di condanna, pena la perdita di efficacia della misura. In particolare, il legislatore prevede un termine breve di sei mesi per i delitti puniti con la reclusione fino a sei anni; un termine medio di un anno per i delitti puniti con la pena massima della reclusione superiore a sei anni ma inferiore a venti anni; un termine lungo di un anno e sei mesi per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni.

Ebbene, è necessario in primo luogo analizzare l’effetto che produce una modifica della pena edittale per il reato per cui si procede, intervenuta in corso di processo, sulla durata della misura cautelare già applicata al reo.

Dottrina e giurisprudenza ritengono che, qualora la legge sopravvenuta diminuisca la pena prevista per il reato per cui si procede, tanto da scendere al di sotto delle soglie previste dall’art. 303 c.p.p., debba farsi riferimento alla nuova cornice edittale più favorevole con conseguente revoca delle misure che risultano scadute.

In secondo luogo, occorre prendere in esame l’opposta ipotesi in cui la sopravvenienza normativa determini un aumento della pena edittale massima.

Tale problema si è posto di recente in riferimento ai delitti di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori di cui rispettivamente agli artt. 572 e 612bis c.p.

In particolare, il Codice Rosso, approvato con legge n. 69 del 2019, ha modificato la fattispecie astratta dei predetti delitti aumentando la pena massima edittale, elevandole in entrambi i casi oltre i sei anni di reclusione: sette anni per il delitto di maltrattamenti in famiglia e sei anni e sei mesi per gli atti persecutori. Il principale effetto prodotto dalla novella legislativa è stato quello di determinare l’applicazione per i predetti delitti del termine cautelare medio a fronte del previgente termine breve, ponendo al riguardo un problema successorio.

L’argomento è oggetto di un contrasto in dottrina. Secondo un primo orientamento, dato il principio di irretroattività sfavorevole, la novella non potrebbe produrre effetti nei confronti degli autori per fatti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.

Una seconda impostazione, al contrario, ritiene che bisogna distinguere gli effetti sostanziali dagli effetti processuali delle norme che intervengono sul trattamento sanzionatorio. Pertanto, il giudice dovrebbe assegnare rilevanza al momento in cui la misura è eseguita e non al tempo in cui il fatto è stato commesso, facendo riferimento ai nuovi limiti edittali ed estendendo la durata della misura. Per l’orientamento in esame, dunque, non sarebbe possibile invocare il principio di irretroattività sfavorevole in quanto l’art. 303 c.p.p. è norma processuale per cui vige il principio del tempus regit actum.

La dottrina dominante ha ritenuto tale tesi confliggente con la ratio garantista del principio di irretroattività che tutela il diritto di autodeterminazione del singolo: la pena, cui il legislatore fa riferimento per stabilire la durata delle misure, va individuata in relazione al momento in cui è stato commesso il fatto. Essa, pertanto, non potrà subire modifiche peggiorative.

In assenza di specifiche disposizioni da parte del legislatore, sembra che la soluzione più favorevole per il reo debba essere preferita anche alla luce dell’applicazione del principio generale del favor rei.


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