LA MASSIMA
La mancata inflizione di più coltellate non esclude la sussistenza della volontà omicida, qualora sia accertato che, per le modalità operative e per l'arma impiegata, l'azione sia stata idonea a causare la morte della vittima e tale evento non si sia verificato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente.
IL CASO Il Tribunale del riesame di Lecce ha confermato l’ordinanza emessa dal Tribunale di Brindisi, con la quale il g.i.p. aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’imputato, ritenendo che vi fossero a suo carico gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di tentato omicidio. In particolare, secondo la ricostruzione fornita dalla persona offesa e dai suoi genitori , l’imputato, durante un incontro notturno, poi degenerato in un litigio, aveva estratto dal giubbotto un coltello da cucina e aveva accoltellato l’altro giovane, così provocandogli una grave ferita sul torace.
LA QUESTIONE Avverso tale ricostruzione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo, tra i vari motivi, la violazione di legge, ritenendo che il fatto, così come descritto, dovesse essere qualificato come lesioni personali gravi e non come tentato omicidio, difettando l’elemento psicologico di quest’ultimo reato. Il difensore, più specificatamente, ha contestato la mancata valorizzazione di elementi, quali l’unicità del colpo e il repentino allontanamento dell’imputato, da cui poter desumere l’insussistenza dell’animus necandi. Il ricorrente, peraltro, ha eccepito il mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione, ritenendo che l’insistenza della persona offesa in ordine ad un possibile “chiarimento” ha indotto nell’imputato il timore di una vendetta, sì da giustificare il porto dell’arma. Il ricorso da parte della persona offesa ad epiteti dispregiativi quale “infame” o “carogna” ha poi scatenato lo stato d’ira dell’imputato, da cui è derivata la perdita dei freni inibitori.
LA SOLUZIONE
Pronunciandosi su tali questioni, la Corte di Cassazione ha confermato in toto la pronuncia emessa dal Tribunale del Riesame, ritenendo corretta innanzitutto la qualificazione del fatto in termini di tentato omicidio anziché di lesioni personali. La micidialità del coltello adoperato, la direzione e la violenza del colpo, la zona del corpo attinta, nonché la gravità della lesione rendono difatti evidente la volontà dell’agente, tanto nella forma del dolo diretto quanto del dolo alternativo, pure compatibile con il tentativo.
Ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’animus necandi, prosegue la Suprema Corte, assume valore determinante l’idoneità dell’azione , da valutarsi con riferimento alla situazione che si presentava “ex ante” all’imputato , al momento de compimento degli atti (cfr. Cass. sez. I , sentenza n. 11928 del 29.11.2018)
In ordine al secondo motivo di doglianza, i Giudici di legittimità hanno confermato l’esclusione dell’attenuante invocata, rilevando che il comportamento della persona offesa, per quanto idoneo a far sorgere nell’imputato il timore per la propria incolumità, non può giustificare la sua reazione, in ogni caso sproporzionata.
Segnalazione a cura di Giovanna Bellomo.
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