LA MASSIMA «In tema di tentativo, il requisito dell'univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo».
IL CASO In entrambi i giudizi di merito veniva riconosciuta la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui agli artt. 56, 75 c.p. e 4 L. n. 110/1975 per aver accoltellato un venditore ambulante, attingendolo nella regione occipitale sinistra, nella regione laterale sinistra del collo e del braccio sinistro, non riuscendo tuttavia nell’intento omicida a causa della pronta reazione della vittima, che riusciva così a salvarsi. Avverso tali determinazioni, pienamente convergenti, ha interposto ricorso per cassazione l’imputato, articolando plurimi motivi di gravame, tra i quali vengono in rilievo: - la violazione di legge ed il vizio di motivazione del provvedimento impugnato in relazione agli artt. 56, 575 c.p., 187 e 192 c.p.p., in quanto la dinamica degli accadimenti criminosi non consentirebbe di ricondurre la condotta delittuosa dell’imputato nella fattispecie del tentato omicidio, non risultando provati né l’idoneità dell’azione a cagionare l’evento morte, né il c.d. animus necandi, ossia la volontà dell’agente di uccidere la vittima; - la violazione di legge ed il vizio di motivazione del provvedimento impugnato in riferimento all’art. 582, comma 2, c.p., doglianza con cui la difesa ha lamentato che le emergenze probatorie imporrebbero di ricondurre il comportamento dell’imputato nella fattispecie di lesioni personali e non già in quella di tentato omicidio invece ascrittagli.
LA QUESTIONE Nella sentenza riportata in epigrafe, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla corretta perimetrazione del requisito dell’univocità degli atti, cogliendo altresì l’occasione per chiarire la sottile linea di demarcazione tra il reato di tentato omicidio e quello di lesione personale, in relazione al diverso atteggiamento psicologico tenuto dall’agente, nonché alla differente potenzialità dell’azione lesiva. Al riguardo, la difesa del prevenuto ha censurato l’iter argomentativo seguito dai giudici di merito, assumendo che nel caso di specie sarebbe configurabile il reato di lesioni personali in luogo del delitto tentato, giacchè dalle emergenze processuali non era possibile affermare con sufficiente grado di certezza la dinamica del ferimento e l’intento lesivo perseguito dal ricorrente, con conseguente assenza di prova in ordine alla volontà omicida dello stesso.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, nel ritenere infondate le doglianze difensive, ha ribadito il principio di diritto secondo cui «in tema di tentativo, il requisito dell'univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo».
Detto altrimenti, l’univocità degli atti, presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa riconducibile al dettato dell’art. 56 c.p., deve essere intesa nel senso che gli atti devono possedere l’attitudine verso un proposito criminoso, risultando pertanto idonei a provocare l’evento.
Peraltro, al fine di valutare se il fatto ascritto all’imputato sia sussumibile nella fattispecie del delitto tentato o in quella meno grave di lesioni personali, la Corte ha inteso porre l’attenzione sul criterio di idoneità degli atti, precisando all’uopo che essa “deve esse valutata con un giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto».
Sulla scorta di tali assunti, è possibile dunque affermare che il discrimen tra i due reati va individuato nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente, nonché nella differente potenzialità dell’azione lesiva (idoneità dell’arma impiegata, modalità dell’atto lesivo), atteso che nella fattispecie di lesioni personali l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel delitto tentato è richiesto un quid pluris, che – al di là dell’evento realizzato – è idoneo a causarne uno più grave in danno del medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per cause estranee alla volontà dell’agente (una mira non precisa, un errore di calcolo della distanza, una reazione difensiva istintiva della vittima).
Ne discende che la valutazione sulla configurabilità del tentato delitto piuttosto che delle lesioni personali non può essere subordinata agli effetti realmente raggiunti o alle circostanze che abbiano impedito il verificarsi dell’evento, dovendo invece essere effettuata secondo il c.d. criterio della prognosi postuma, per cui si impone al giudice di collocarsi idealmente nel momento in cui è stata posta in essere la condotta, per accertare se quest’ultima risultava idonea rispetto al fine perseguito.
In ultima analisi, applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, i giudici di vertice hanno rigettato il ricorso, ritenendo provato l’intento omicida dell’imputato in ragione della sequenza dell’azione delittuosa, caratterizzata dall’uso di un’arma da taglio di elevata potenzialità, dalla violenza dell’aggressione posta in essere dal ricorrente e dalla natura delle ferite riportate dalla vittima in prossimità di organi vitali.
Conclusivamente, gli indici di cui innanzi dimostrano inequivocabilmente la direzione causale univoca dell’azione posta in essere dall’imputato, la sua concreta idoneità a produrre l’evento letale, nonché la sussistenza dell’intento omicida, non portato tuttavia a compimento per la tempestiva azione della vittima, con conseguente configurabilità nel caso in esame del reato di tentato omicidio e non già di quello di lesioni.
Segnalazione a cura di Raffaella Stigliano
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