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Diritto Penale

TENTATIVO - ATTI PREPARATORI - Cass. V Sez. 30 marzo 2021, n. 12045

LA MASSIMA

“Ai fini della punibilità del tentativo, possono assumere rilevanza anche gli atti meramente preparatori, quando essi, per le concrete circostanze di luogo, di tempo o di mezzi, evidenzino che l'agente commetterà il delitto progettato, a meno del sopravvenire di eventi imprevedibili, indipendenti dalla volontà dell'agente, e che l'azione abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato”


IL CASO

Le vicende, oggetto della sentenza in esame, traevano origine da una recrudescenza di azioni delittuose, consumatesi nell’ambito di sodalizi criminali, quali tentativi di estorsione, tentati omicidi ed omicidi di personaggi appartenenti alla cosca ‘ndranghetista.

La Corte d’assise d’appello, nell’esteso impianto motivazionale, avallava le argomentazioni del giudice di prime cure e considerava il compendio probatorio acquisito sufficiente per poter confermare, in ordine tutti gli imputati, la responsabilità per i delitti loro ascritti, riformando, al contempo, se pur parzialmente, la sentenza di primo grado, per ciò che concerneva le pene.

Avverso la predetta pronuncia, proponevano ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, tutti gli imputati, eccependo, preliminarmente, due questioni, ovverosia quella di incompetenza per territorio dell’autorità giudiziaria che aveva proceduto, nonché, in relazione ad uno degli imputati, la violazione del divieto sancito dall’art. 649 c.p.p.

Per il resto, i ricorrenti deducevano, in via generale, le medesime censure, quali violazioni di legge, e vizi di motivazione della pronuncia del giudice di merito.

Precisamente, le doglianze degli imputati si incentravano sulla inutilizzabilità ed inconcludenza degli elementi di prova che la Corte distrettuale aveva posto a fondamento della conferma della declaratoria di responsabilità penale dei ricorrenti, pronunciata dal primo giudice.


LA QUESTIONE

Tra le molteplici questioni, chiamata ad affrontare il supremo Consesso, con la sentenza in commento, veniva esaminata la tematica concernente il discrimen tra ipotesi di tentativo di reato incompiuto o già compiuto, sollevata dai ricorrenti che, in relazione al delitto di tentato omicidio loro contestato, invocavano il riconoscimento della desistenza volontaria e del recesso attivo.

In particolare, la Corte, si domandava se le condotte, come poste in essere dagli autori degli agguati, oggetto delle vicende in esame, caratterizzate dall’appostamento di due diversi gruppi, l’uno con compiti di vendetta e segnalazione, l’altro pronto all’azione e munito delle armi necessarie, concretizzassero già il delitto di tentato omicidio o fossero ascrivibili alla categoria dei meri atti preparatori.


LA SOLUZIONE

Nel caso di specie, all’esito di un lungo percorso motivazionale, il Supremo Consesso, dopo aver affrontato le questioni preliminari, nel senso di ritenerle infondate, esaminava, nel resto, i ricorsi proposti.

Invero, la Corte, rifacendosi a principi già consolidati, relativi a casi analoghi, in tema di atti preparatori che possano integrare gli estremi del tentativo punibile, chiariva, nel precisare il principio innanzi esposto, che l’atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, vale a dire quando abbia la capacità ex ante ed in relazione alle circostanze del caso concreto, di raggiungere il risultato prefisso e questo sia univocamente diretto a commettere il delitto.

La Corte, dunque, evidenziava che, nel caso di specie, il delitto, nelle condotte dei ricorrenti, era rimasto alla fase del tentativo per ragioni che non erano dipese dall’attuazione del programma che l’aveva sostenuto; infatti nell’un caso, la vittima designata non era transitata, in modo da non poter neppure ipotizzare una desistenza dei suoi autori dal portare a compimento l’azione, mentre nell’altro, l’interruzione della serie causale era si dipesa dalla decisione dei suoi autori, ma tale interruzione era derivata, non dall’esaurimento della volontà di portarla a termine, ma dal fatto oggettivo e non programmato, che l’azione, se portata ad ulteriore compimento, avrebbe, con tutta probabilità, cagionato esiti ben più gravi di quelli che i suoi autori intendevano realizzare.

Ciò posto, all’esito del lungo percorso motivazione, i giudici di legittimità rigettavano tutti i ricorsi e condannavano i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, in solido fra gli stessi, alla rifusione delle spese sostenute, in giudizio, dalla parte civile.


Segnalazione a cura di Maria Rita Siani


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