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Diritto Penale

TENTATIVO - ATTI PERSECUTORI - Cass. Sez. V, 18 gennaio 2021, n. 1943

LA MASSIMA

"È configurabile il tentativo di atti persecutori ex artt. 56 e 612-bis c.p., qualora gli atti tipici di minaccia o molestia siano idonei e diretti in modo non equivoco a creare un progressivo accumulo di disagio, che protraendosi nel tempo determina lo stato di prostrazione psicologica, tale da cagionare gli eventi tipici previsti dalla fattispecie incriminatrice, come accade per i reati di danno”


IL CASO

La sentenza in epigrafe esamina il ricorso per saltum ex art 569 c.p.p. nei confronti della sentenza di primo grado, che condanna il prevenuto per il delitto tentato di atti persecutori ex art 56 e 612-bis c.p. La difesa lamenta l’erronea applicazione dell’art 612-bis c.p. il quale non è configurabile nella forma tentata; secondariamente, contesta la mancata qualificazione del fatto come reato impossibile, in quanto le condotte non hanno prodotto conseguenze dannose alla persona offesa. Infine, è contestata l’errata applicazione dell’art 2059 c.c. poiché il danno non patrimoniale riconosciuto non consegue ad un pregiudizio effettivo alla parte civile, bensì deriva dal fatto che le condotte delittuose sono state compiute in luogo pubblico e in presenza di altre persone.


LA QUESTIONE

La questione di diritto rimessa alla Suprema Corte attiene la configurabilità del delitto di atti persecutori - il c.d. stalking - nella forma tentata. In particolare, l’art 612-bis c.p. è un reato abituale improprio di danno il cui elemento oggettivo richiede la reiterazione di condotte di minaccia o di molestia, in grado di causare tre alternativi eventi: il perdurante e grave stato di ansia o di paura; un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata da una relazione affettiva; una costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. In generale, il reato di danno è astrattamente configurabile nella forma tentata; al contrario, appare più difficile l’applicazione del tentativo al reato abituale improprio, in quanto esso è costituito dalla reiterazione di fatti che, isolatamente considerati, costituiscono ciascuno una fattispecie autonoma di reato. Dunque, nel caso in esame, la mancanza dell’effetto psicologico di ansia, timore o paura, nella vittima di stalking, potrebbe al più integrare una diversa fattispecie incriminatrice.

L’altra questione di diritto verte sulla configurabilità del reato impossibile ex art 49 comma 2 c.p. a causa dell’inidoneità del soggetto passivo rispetto al reato di atti persecutori. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, la persona offesa non aveva percepito l’offensività delle telefonate notturne e delle condotte poste in essere dall’imputato nei luoghi pubblici frequentati dalla stessa. Le condotte del prevenuto sarebbero risultate inidonee ad offendere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie dei cui all’art 612-bis c.p. dato il temperamento forte della vittima.

Infine, l’ultima questione trattata attiene il riconoscimento del risarcimento del danno morale ex art 2059 c.c. derivante non da un pregiudizio effettivo alla parte civile, ma dal fatto che le condotte delittuose sono state compiute in luogo pubblico e in presenza di altre persone.


LA SOLUZIONE

La Corte dichiara infondati i primi due motivi di ricorso. Con riferimento al primo motivo, i giudici di legittimità affermano che la fattispecie di atti persecutori si perfeziona con la ripetizione degli atti di minaccia o molestia, considerati unitariamente, tali da cagionare nella vittima un progressivo accumulo di disagio, che protraendosi nel tempo determina uno stato di prostrazione psicologica in grado di produrre uno degli eventi tipici di danno (l’alterazione delle abitudini di vita o il perdurante e grave stato di ansia o di paura) o di pericolo (ossia, il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata da una relazione affettiva). Sul piano soggettivo, l’autore deve essere consapevole della abitualità degli atti posti in essere e della loro idoneità a cagionare uno degli eventi alternativamente richiesti dalla norma. Dunque, è configurabile il tentativo - come accade per i reati di danno - ove la condotta è costituita da atti idonei diretti, in modo non equivoco, a cagionare uno degli eventi previsti, ma l’evento non si verifica.

Risulta altresì infondato il secondo motivo di ricorso, non essendo nel caso in esame configurabile il reato impossibile. La Corte delinea le due eventualità nelle quali si delinea il reato impossibile, ossia l’inidoneità dell’azione e l’inesistenza dell’oggetto. In particolare, l’inidoneità dell’azione deve essere assoluta, vale a dire la condotta deve essere priva di determinabilità causale dell’evento sulla base di un accertamento compiuto sulla base di un giudizio di prognosi postuma. L’inesistenza dell’oggetto si verifica quando l’oggetto è inesistente in rerum natura ovvero sussiste un’inesistenza originaria e assoluta. Ne consegue che, l’inidoneità del soggetto passivo, in quanto dotato di un carattere forte, non rileva ai fini della configurabilità del reato impossibile.

Infine, la Corte dichiara inammissibile l’ultimo motivo in quanto la liquidazione del danno morale è una valutazione di merito sottratta al sindacato di legittima della stessa.


Segnalazione a cura di Beatrice Doretto




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