MASSIMA
“Il sequestro totalitario finalizzato alla confisca “diretta” del denaro giacente sul conto cointestato può essere disposto non sulla base di meccanismi presuntivi, ma a seguito di verifica, anche solo a livello indiziario, che il conto sia alimentato solo da somme dell’indagato. In mancanza di tale elemento, il sequestro può essere disposto solo sulla parte del denaro “riconducibile”, proveniente dall’indagato; la riferibilità, in tutto o in parte, del denaro all’indagato deve essere oggetto di accertamento, seppur a livello indiziario, da parte del pubblico ministero che chiede il sequestro totalitario o parziale delle somme”.
IL CASO
Nell’ambito del procedimento penale per i reati di cui agli artt. 318-319 cod. pen. e art. 8 d.lgs. n. 74/2000, Tizia, moglie dell’indagato Caio, sollevava istanza di restituzione della somma di denaro oggetto di sequestro preventivo, depositata sul conto corrente bancario cointestato ad entrambi i coniugi. Il Tribunale di Varese, in conferma dell’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari, rigettava tale richiesta, ritenendo che detta somma “rientrerebbe tra i valori costituenti il prezzo complessivi delle corruzioni ascrivibili” a Caio.
Avverso tale decisione, Tizia proponeva ricorso in Cassazione adducendo quattro ordini di motivi.
In primis, lamentava una violazione di legge in relazione all’art. 325 c.p.p.: l’ordinanza del Tribunale sarebbe da considerarsi illegittima per aver ritenuto inammissibile la richiesta di restituzione delle somme sequestrate in ragione della mancata dimostrazione del nesso di derivazione del denaro giacente sul conto corrente rispetto al reato ipotizzato. Nello specifico, la ricorrente assumeva l’applicazione da parte del Tribunale di un principio di diritto contrastante con quanto affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite. Invero, il giudice di merito aveva ritenuto preclusa la questione, sollevata dalla ricorrente, in quanto quest’ultima non aveva proposto previamente richiesta di riesame avverso l’originario decreto di sequestro.
Tizia lamentava, altresì, violazione di legge e di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del nesso di derivazione tra il denaro giacente sul conto corrente bancario cointestato e il reato per cui si procede, anche con riferimento alle somme confluite successivamente alla commissione del reato ipotizzato (28 aprile 2016).
Infine, si deduceva un vizio di motivazione in relazione all’esame della documentazione prodotta dalla difesa. Da quest’ultima, infatti, emergeva che il conto corrente bancario era intestato alla sola Tizia sino al 26 aprile 2016. Pertanto le somme depositate erano da considerarsi riconducibili solo alla stessa in quanto derivanti dalla conversione in denaro di titoli costituiti in epoca risalente e quindi “esterni” rispetto ai reati per cui si procede. Inoltre, alla data della cointestazione, il conto presentava un saldo creditore di euro 54.902,33 e non sarebbe stato possibile attribuire valenza decisiva alla “procura di firma” rilasciata all’imputato prima della formale cointestazione.
LA QUESTIONE
Preliminarmente, si pone dinanzi al giudice di legittimità la questione circa l’ammissibilità o meno della richiesta di restituzione delle somme sequestrate. La Corte, discostandosi da quanto affermato dal Tribunale, ha richiamato una giurisprudenza delle Sezioni Unite in base alla quale: “la mancata tempestiva proposizione, da parte dell’interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neanche in assenza di fatti sopravvenuti; ne consegue che è ammissibile l’appello cautelare avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca, non potendosi attribuire alla mancata attivazione del riesame la valenza di una rinuncia all’impugnazione” (Sez.Un., n. 46201 del 31 maggio 2018). Pertanto, nessuna questione poteva essere preclusa alla ricorrente con la richiesta di dissequestro.
LA SOLUZIONE
La Corte ritiene fondati i motivi di ricorso.
Innanzitutto, richiama e contesta la correttezza del principio di diritto applicato dal Tribunale in base al quale “la mera cointestazione non può, in mancanza di una prova che dimostri la reale consistenza degli incrementi di propria pertinenza, accreditare la presunzione che le somme in deposito siano spettanti a ciascuno dei co-intestatari in parti uguali”. Nonostante il ragionamento del giudice di prime cure fosse avvalorato da un indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui “in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca eseguito su conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile (artt. 1289 e 1834), regolativi dei rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ma è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità di tali somme e la conseguente illegittimità del vincolo” (Cass. Pen., Sez. VI, n, 24432/2019), a parere della Corte tali principi appaiono solo parzialmente condivisibili.
Innanzitutto, occorre precisare che il tema centrale attiene al se, in caso di sequestro di somme di denaro giacenti su conto corrente cointestato all’indagato ed a un soggetto terzo, sia configurabile una presunzione generale, ancorché relativa, secondo cui tutte le somme giacenti sul conto dovrebbero considerarsi riferibili al soggetto indagato. In particolare, la questione sorge nel caso di sequestro finalizzato alla confisca diretta del prezzo o del profitto di reato ossia in relazione ad una tipologia di confisca per la quale è necessario verificare il nesso di derivazione della res dal reato e l’appartenenza del bene al soggetto indagato e non ad un terzo. Non si deve, dunque, accertare la materiale disponibilità da parte dell’indagato del denaro versato sul conto quanto piuttosto il fatto che tale denaro sia causalmente riferibile e riconducibile all’indagato perché solo ciò consente di affermare, in ragione della sua fungibilità, che quel bene sia profitto o prezzo del reato (Sez. Un., n. 31617/2015).
Pertanto, ritiene la Corte, l’analisi deve essere svolta sul momento precedente alla costituzione della comunione sul denaro; diversamente, si ammetterebbe in via generalizzata il sequestro funzionale alla confisca diretta del prezzo o del profitto di reato di beni che possono appartenere ad un soggetto diverso dall’indagato. Ne consegue che il sequestro totalitario finalizzato alla confisca “diretta” del denaro giacente sul conto cointestato può essere disposto non sulla base di meccanismi presuntivi, ma a seguito di verifica, anche solo a livello indiziario, che il conto sia alimentato solo da somme dell’indagato. In mancanza di tale elemento, il sequestro può essere disposto solo sulla parte del denaro “riconducibile” e proveniente dall’indagato; la riferibilità, in tutto o in parte, del denaro all’indagato deve essere oggetto di accertamento, seppur a livello indiziario, da parte del pubblico ministero che chiede il sequestro totalitario o parziale delle somme.
Dunque, alla luce delle deduzioni specifiche difensive dirette a comprovare che il conto corrente de quo era stato alimentato dal denaro della ricorrente e in mancanza di chiarimenti da parte del Tribunale circa il perché la documentazione bancaria prodotta consentirebbe di escludere la riferibilità delle somme a Tizia e, di conseguenza, di affermare la riconducibilità all’indagato, la Corte annulla con rinvio l’ordinanza impugnata.
Segnalazione a cura di Gaya Carbone
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