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Diritto Penale

SCOPPOLA E FRATELLI MINORI: dal 2009 fino alla rimessione alle Sezioni Unite del 2019

A cura di Benedetta Mauro


Coordinate normative:


Art. 25 Cost comma 2

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.


Art. 3 Cost.

1. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

2. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


Art. 117 comma 1 Cost.

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Art. 2 cod. pen. “Successione di leggi penali"

1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

2. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

3. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.

4. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

5. Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

6. Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti.


Art. 7 Cedu “Nessuna pena senza legge”

1. Nessuno può essere condannato per un’azione o una omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole d’una azione o d’una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.


Premesse di ordine generale:

L’art. 25 comma 2 della Costituzione, prevede espressamente il solo principio di irretroattività della successiva legge penale sfavorevole. A partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 304 del 2006, è stato riconosciuto fondamento costituzionale anche al principio di retroattività favorevole quale proiezione del principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.L’art. 2 cod. pen., oltre ad enunciare il principio di irretroattività della norma penale incriminatrice, confermando in tal senso il dettato costituzionale, prevede al secondo comma il principio di retroattività della norma penale abolitiva sopravvenuta ed al quarto comma, il principio di retroattività della sopravvenuta norma penale non abolitiva ma solo più favorevole rispetto a quella vigente al momento del fatto. Nel caso di norma abolitiva, la retroattività non incontra alcun sbarramento, invece, nel caso di norma successiva non abolitiva ma modificativa più favorevole, la retroazione incontra il limite dell’intervenuto giudicato con la deroga che qualora vi sia stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore abbia previsto esclusivamente una pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta va convertita nella corrispondente pena pecuniaria.L’art. 7 della Cedu conformemente all’art. 25 Cost e all’art. 2 cp sancisce il principio di irretroattività della successiva disposizione sfavorevole.Nel 2009 con la sentenza della Corte EDU nel caso Scoppola c. Italia si amplia la base costituzionale del principio di retroattività: non più solo l’art. 3 Cost. ma anche l’art 117 comma 1 Cost. laddove stabilisce che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.Rango della Cedu nel nostro ordinamento ed eventuale contrasto.

Le norme della Cedu in quanto pattizie e non consuetudinarie o generalmente riconosciute, non rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 10 comma 1 Cost.

Non possono essere ricondotte nemmeno all’art. 11 Cost. non essendoci stata, per effetto dell’adesione del nostro Stato alla Convenzione, alcuna accettazione di limitazione della sovranità.

Le norme della Convenzione costituiscono obblighi internazionali ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost, pertanto nel caso in cui vi sia un contrasto tra norma nazionale e norma Cedu, il giudice nazionale dovrà verificare se sia possibile un’interpretazione convenzionalmente orientata della disposizione interna e solo se il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, non potendo procedere alla disapplicazione della norma nazionale, dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma nazionale per contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost. e indirettamente con la disposizione Cedu.

Invece, nel caso in cui una disposizione Cedu appaia contrastante con un principio della nostra Costituzione, la questione di legittimità investirà la legge di adattamento nella parte in cui ha consentito l’ingresso nell’ordinamento nazionale di una regola Cedu confliggente con i principi costituzionali.


Tappe dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale:


2000

Decreto legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare un’interpretazione autentica al secondo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del 1999, aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo» ivi contenuta doveva intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e aveva inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».

Il trattamento sanzionatorio viene in tal modo aggravato.


2009

Corte EDU, Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009, ric. n. 10249/2003

MASSIMA

“In materia di applicazione della legge penale. L’art. 7, par. 1, della Convenzione non garantisce solamente il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Pertanto, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell’art. 7, par. 1, CEDU l’applicazione della pena più sfavorevole al reo.”

Il principio di retroattività della norma più favorevole entrata in vigore dopo la commissione del fatto, sebbene non espressamente enunciato dall’art. 7 Cedu è ricavabile implicitamente da tale disposizione. Ciò significa che ogni qual volta il legislatore nazionale limita l’applicazione retroattiva della sopravvenuta norma più favorevole, per verificare se tale operazione è costituzionalmente legittima, si dovrà far riferimento non solo all’art. 3 Cost. ma anche all’art. 117 comma 1 Cost. da leggere insieme all’art 7 Cedu.

Nel caso di specie Scoppola, a seguito di una norma sopravvenuta più sfavorevole, art. 7 d.l. 340/2000, si era visto applicare una pena più severa rispetto a quella vigente al momento della commissione del fatto di reato, da qui il ricorso alla Corte di Strasburgo e la condanna dell’Italia per violazione dell'art. 7 CEDU.


2011

Corte Cost., 22 luglio 2011, n. 236

“Il principio di eguaglianza costituisce non solo il fondamento, ma anche il limite dell’applicabilità retroattiva della lex mitior. Mentre il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, infatti, costituisce un valore assoluto e inderogabile, quello della retroattività in mitius è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare, dalla necessità di preservare interessi, ad esso contrapposti, di analogo rilievo (…)

Il riconoscimento da parte della Corte europea (sentenza Scoppola 2009) del principio di retroattività in mitius – che già operava nel nostro ordinamento in forza dell’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. e aveva trovato un fondamento costituzionale attraverso la giurisprudenza di questa Corte – non ha escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione.”

Dopo la sentenza Edu Scoppola si pose il problema dei cd. "fratelli minori” ossia di coloro che pur non avendo presentato ricorso alla Corte di Strasburgo si trovavano nell’identica posizione sostanziale del ricorrente.

In particolare ci si chiese se il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Scoppola c. Italia, potesse sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione della legge più favorevole.


2013

Corte Cost., n. 210 del 2013

“La Corte EDU, la quale ha il compito istituzionale di interpretare e applicare la CEDU, quando accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento giuridico nazionale, pone in essere una cosiddetta “procedura di sentenza pilota”, che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione della persona il cui caso è stato specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, offrendo loro la riparazione più rapida, sì da alleggerire il carico della Corte sovranazionale.

La Sentenza Scoppola pur non fornendo specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, «evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».

Ne conseguirebbe che eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, «devono dunque essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola».

Secondo la sentenza Scoppola, l’art. 7 della CEDU non garantisce soltanto il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive approvate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice debba applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, l’applicazione della pena più sfavorevole al reo (…)

Ne conseguirebbe che l’avere inflitto al ricorrente, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola, la pena dell’ergastolo, anziché quella di trent’anni di reclusione, avrebbe violato il suo diritto all’applicazione retroattiva (art. 7 della CEDU) della legge penale più favorevole, e la violazione inevitabilmente si rifletterebbe, con effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale alla libertà personale (…)

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4”

Riassumendo, con tale decisione la Consulta riconosce che:

il principio di diritto enunciato dalla Corte europea in riferimento a un singolo caso concreto vincola lo Stato parte della Convenzione a porre rimedio alla violazione anche in relazione a tutti gli altri casi in cui la violazione si è in concreto verificata; il giudicato penale di condanna deve essere, anche in questi casi, modificato dal giudice dell'esecuzione, sì da assicurare l'adeguamento della pena ai principi statuiti a Strasburgo; il giudice dell'esecuzione ha il potere di sollevare questione di legittimità costituzionale ex art. 117, comma 1, Cost. sulla norma di legge italiana che eventualmente osti a tale adeguamento, in maniera non superabile in via di interpretazione conforme al diritto convenzionale.


2014

Corte Cass., Sez. Un., 7 maggio 2014, n. 18821

“La restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (art. 13, comma secondo, 23, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost. (…)

Il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona (…) eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere rimossi (…)

Ritenuto quindi superabile lo scoglio del giudicato, rivelatosi ex post intrinsecamente illegittimo nella parte relativa all'esecuzione della pena irrogata, perché convenzionalmente e costituzionalmente illegittima, l'attenzione deve essere rivolta all'individuazione dello strumento processuale idoneo a consentire l'intervento correttivo sullo stesso giudicato(…)”

Il meccanismo procedurale da utilizzare non può che essere individuato nell'incidente di esecuzione (…) ma “la questione relativa alla non eseguibilità del giudicato di condanna nella parte concernente la specie e l'entità della sanzione irrogata, perché colpita da sopravvenuta declaratoria d'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost., integrato - quale parametro interposto - dall'art. 7, p. 1, CEDU, non può essere risolta facendo leva sulla norma processuale di cui all'art. 673 cod. proc. pen. (revoca della sentenza per abolizione del reato) (…)

È sull'art. 30 della legge n. 87 del 1953 che, ai fini che qui interessano, deve farsi leva, disponendo tale norma di un perimetro operativo più esteso rispetto a quello prescrittivo dell'art. 673 cod. proc. pen. I commi terzo e quarto del citato art. 30 rispettivamente dispongono che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e che “Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali”.Il riferimento generico alla 'norma dichiarata incostituzionale' evoca qualsiasi tipologia di norma penale - comprese quindi quelle che incidono sul quantum sanzionatorio - e non incontra il limite che, invece, contraddistingue la portata applicativa dell'art. 673 cod. proc. pen., circoscritta alla sola 'norma incriminatrice' in senso stretto, costitutiva cioè di un autonomo titolo di reato (…)

Si precisa tuttavia “che il meccanismo di aggressione del giudicato, nella parte relativa alla specie e alla misura della pena inflitta dal giudice della cognizione, è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto non coerente col principio di retroattività in mitius; c) la possibilità d'interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d'incostituzionalità della medesima normativa (com'è accaduto nella specie); d) l'accoglimento della questione sollevata deve essere l'effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo.

Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell'esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 cod. proc. pen., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima.”


2019

Cass. Pen., Sez. VI, Ordinanza, 17 maggio 2019 n. 21767

Il CASO

Avendo la Corte di appello, rigettato la richiesta di revisione della sentenza della Corte di Assise, divenuta irrevocabile, con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di concorso esterno in mafia, artt. 110 e 416-bis cod. pen., la parte proponeva ricorso per cassazione.

La richiesta di revisione si basava “sulla sentenza della Corte EDU, pronunciata nel caso Contrada contro Italia del 14 aprile 2015, che aveva accertato la violazione dell'art. 7 CEDU in relazione ad un processo che aveva portato alla condanna di un imputato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa commesso tra il 1979 e il 1988, in quanto all'epoca in cui era stato commesso il fatto di reato «non era sufficientemente chiaro e prevedibile» per quest'ultimo, che non poteva quindi «conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità derivante dagli atti da lui compiuti» (…) Secondo l'istante, non era da ritenersi di ostacolo all'applicazione del rimedio della revisione la circostanza che la sentenza della Corte EDU alla quale conformarsi riguardasse un soggetto diverso da quello promotore del giudizio davanti alla suddetta Corte.”

LA QUESTIONE

quale sia la portata generale della sentenza della Corte EDU sul caso Contrada;applicabilità erga alios della revisione europea;strumento azionabile da parte dei "fratelli minori" per giovarsi di sentenze della Corte EDU che accertino violazioni di diritto sostanziale;

Per tali ragioni, la sesta sezione penale rimette il ricorso alle Sezioni unite affinché stabiliscano:

se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile.

“La questione dell'estensione erga alios degli effetti della sentenza sul caso Contrada si snoda necessariamente da un lato attraverso i principi affermati dalla giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità sul tema dell'efficacia espansiva delle sentenze della Corte EDU, e dall'altro sulla singolarità della pronuncia stessa, quanto ai deficit sistemici riscontrati dalla Corte di Strasburgo.

In ordine al primo aspetto, l'analisi non può che muovere dalla sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, che (…) ebbe ad occuparsi degli strumenti accordati dall'ordinamento nazionale per rendere eseguibile una condanna pronunciata dalla Corte EDU nella quale fosse stata accertata la violazione dei principi in tema di equo processo. Strumenti che (…) dovevano essere tali da "rimuovere" le conseguenze dell'accertata violazione (…) le istanze europee avevano identificato nella «riapertura del processo» ovvero in un nuovo processo, su istanza dell'interessato, il meccanismo più consono al raggiungimento di tale effetto restitutorio. Si trattava in sostanza di rimediare, oltre ai limiti del giudicato (tradizionalmente insuperabile con riguardo agli errori procedurali) ad un processo non equo non necessariamente conducente ad un giudizio assolutorio (il nuovo processo ben avrebbe potuto concludersi con una nuova condanna, nei limiti del divieto della reformatio in peius), finalità alla quale mal si attagliavano, secondo il Giudice delle leggi, i rimedi disponibili dall'ordinamento nazionale (…)

In tale contesto, si è collocata la pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen.

La Corte costituzionale ha ritenuto che l'istituto della revisione (astrattamente ritenuto l'unico più idoneo allo stato della normativa vigente per rimediare alla violazione riscontrata) dovesse invero consentire la riapertura del processo (…) se ritenuta "necessaria", ai sensi dell'art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo. (…)

L'ampiezza del dispositivo della sentenza n. 113 del 2011 fa poi ritenere il rimedio forgiato dalla Corte costituzionale non limitato soltanto alla tipologia di violazioni dell'equo processo (…), ben potendo anche una violazione che attiene al diritto sostanziale richiedere, per essere riparata, un'ulteriore attività cognitiva del giudice.

Quel che sembra invece il tratto essenziale del nuovo strumento è che lo stesso venga azionato dai soggetti che hanno adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo, come di recente la stessa Corte costituzionale ha ribadito (sent. n. 123 del 2017), evidenziando che nei loro confronti è stato riconosciuto l'esistenza dell'obbligo convenzionale di conformarsi ad una sentenza della Corte EDU (…) La sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo, pur restando sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata, può assumere infatti un valore generale e di principio (sent. n. 236 del 2011) (…) Certamente, il giudice comune non potrà negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata (sent. n. 210 del 2013). Ma quando, invece, si tratta di operare al di fuori di un simile presupposto, deve restar fermo che «l'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sent. n. 349 del 2007), i quali non possono ignorare l'interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione (…) il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo solo un "diritto consolidato", generato dalla giurisprudenza europea anche sotto forma di sentenza pilota, mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo (…)

Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un "diritto consolidato" o di una "sentenza pilota", il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione» ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all'incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011) (…)

L’occasione per verificare l'impatto e l'efficacia espansiva, potenzialmente applicabile erga omnes, della pronuncia della Corte EDU a fronte della riscontrata violazione "pacifica" di principi consolidati della CEDU, si è verificata con la sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013 (…) La Corte costituzionale nella specie era stata chiamata a pronunciarsi in relazione ad un caso in cui la persona, già definitivamente condannata, intendeva far valere, in sede di esecuzione, la medesima violazione già constatata in altro procedimento e nei confronti di altra persona dalla Corte EDU in relazione all'art. 7 della Convenzione (Grande Camera, sent. 17/09/2009, Scoppola contro Italia, in relazione alla violazione dei principi di non retroattività delle leggi penali più severe e di applicazione retroattiva delle leggi più favorevoli al reo in tema di sanzioni penali).

Si trattava nella specie di una sentenza della Corte EDU che aveva riscontrato una violazione da parte dello Stato italiano di tipo sistemico dell'ordinamento interno, pur non costituendo formalmente una sentenza "pilota", ovvero quella sentenza emessa dalla Corte EDU ai sensi dell'art. 61 del Regolamento interno della Corte EDU (come modificato dal 31 marzo 2011) nelle ipotesi in cui i fatti all'origine del ricorso rivelino l'esistenza nello Stato interessato di un problema strutturale o sistemico o di altra simile disfunzione che possa dar luogo ad altri analoghi ricorsi. In tal caso, è la stessa Corte EDU ad indicare, come prevede la citata disposizione, il tipo di misure riparatorie da adottare a livello interno per rimuovere in via generale il problema riscontrato.

Al di fuori di tale particolare procedura, che viene di prassi adottata in presenza di un significativo numero ripetitivo di ricorsi riguardanti la medesima violazione, la limitazione dell'applicazione del dictum della Corte EDU alle sole vittime "accertate" nei contenziosi a Strasburgo comporterebbe la necessità per colui che intenda avvalersene di esperire un apposito ricorso davanti alla Corte e ottenere un'ulteriore condanna dello Stato interessato. (…)

Nella specie, la sentenza nel caso Scoppola evocata dal giudice rimettente, pur non avendo i connotati formali di una vera e propria sentenza “pilota" (…) aveva portata generale (…) e l'obbligo di adeguamento derivante dalla portata generale della pronuncia della Corte EDU spettava al solo legislatore, chiamato a rimuovere la frizione (…) tra l'ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e pertanto ad eliminare gli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l'illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili.

Nel caso invero in cui il legislatore resti inerte, secondo la Corte costituzionale, veniva in considerazione la "radicale" differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si erano rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si erano avvalsi di tale facoltà.

Per questi ultimi, la vicenda processuale, ormai definita con la formazione del giudicato, non è suscettibile di essere risolta attraverso il rimedio convenzionale ex art. 46 cit. (…) pertanto le deroghe al limite del giudicato non andavano ricercate nel sistema riparatorio convenzionale, posto che l'art. 46 cit. non le prevede in via generale (…)

Non avendo il giudice nazionale il potere di mettere direttamente in discussione le norme applicate in sede di cognizione in assenza di un "fatto nuovo" sopravvenuto al giudicato, la situazione poteva trovare soluzione soltanto attraverso l'obbligo di adeguamento espresso dall'art. 117 Cost. alla sentenza della Corte EDU, sollevando, secondo lo schema indicato dalle sentenze "gemelle" n. 348 e 349 del 2009, la questione di legittimità costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, che veniva ad impedire di definire la vicenda processuale oramai coperta da giudicato.

Peraltro, perché l'effetto della sentenza costituzionale sia idoneo a superare la irrevocabilità del giudicato, la norma dichiarata incostituzionale doveva comunque rientrare in quella prevista dall'art. 30, comma 4, I. n. 87 del 1953 (…)

La soluzione del rimedio di costituzionalità era percorribile sempre che la questione sia "relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva”. (…)

La Consulta (…) ha stabilito due principi rilevanti.

In primis, ha rilevato la portata generale degli obblighi di adeguamento nascenti dalla pronuncia della Corte europea, quando, indipendentemente dalle misure generali effettivamente richieste allo Stato italiano soccombente, sia stata accertata una violazione di diritto sostanziale destinata a riverberarsi in situazioni analoghe.

In secondo luogo, ha stabilito che, in presenza di situazioni coperte oramai dal giudicato, mentre il soggetto vittorioso a Strasburgo può contare sulla necessaria (e doverosa) applicazione da parte del giudice nazionale del dictum della Corte europea (attraverso, se necessario, i rimedi sia dell'incidente di esecuzione sia della c.d. revisione "europea"), per tutti gli altri soggetti che si trovano ad aver subito la medesima violazione, l'adeguamento alla sentenza europea, in assenza di congegni processuali predisposti dall'ordinamento interno, può essere realizzato soltanto (non essendo possibile la via dell'interpretazione "conforme" per rimuovere la norma in conflitto) attraverso l'incidente di costituzionalità e sempre che la loro situazione sia risolvibile a "rime obbligate" (dovendo diversamente la tutela del condannato passare necessariamente attraverso l'esperimento di un ricorso alla Corte di Strasburgo).

Si verterebbe in sostanza di un caso non dissimile da quello in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale dichiarata ex post, nella sua parte precettiva o sanzionatoria, illegittima o comunque inapplicabile, perché in contrasto con norme di rango superiore alla legge penale medesima.

Di qui la competenza, indicata dalla Corte costituzionale, a risolverlo del giudice dell'esecuzione.

La Corte costituzionale, non smentendo quanto già dalla stessa affermato in merito alle condizioni soggettive per adire il rimedio della revisione "europea", ha ribadito i limiti propri del giudice dell'esecuzione che non può contraddire le valutazioni del giudice della cognizione. (…)

Ai cosiddetti "fratelli minori" del ricorrente vittorioso, la giurisprudenza costituzionale e delle Sezioni Unite ha finora riconosciuto attraverso l'incidente di esecuzione di far valere quelle violazioni di diritto sostanziale che non richiedano (come di norma) la riapertura del processo, ovvero valutazioni incompatibili con i poteri dell'esecuzione.

Resterebbe quindi privo di tutela colui che intenda giovarsi della sentenza europea, non avendo adito la Corte di Strasburgo, là dove l'applicazione del dictum richieda una rivalutazione del caso, come nel caso sia necessario rivalutare il giudizio di colpevolezza o vengano in considerazioni violazioni di tipo processuale. Invero, la revisione "europea", che risulterebbe idonea astrattamente a rimediare a siffatti vizi, risulterebbe confinata alle sole doverose esigenze esecutive necessitate da una pronuncia di condanna della Corte EDU, in base agli obblighi specifici esecutivi nascenti dall'art. 46 CEDU. (…)

Considerata la delicatezza della materia e i riflessi delle opzioni interpretative sugli obblighi di conformazione alle decisioni della Corte EDU il Collegio rimette il ricorso alle Sezioni unite affinché stabiliscano se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile.”

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