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Diritto Penale

RIDUZIONE IN SCHIAVITÙ - SUCCESSIONE LEGGI - Cass., IV Sez., 4 agosto 2021, n. 30538

LA MASSIMA

I fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcun elemento di contatto, posto che violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù, configurabile perfino quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, bensì di quello di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa. Né, prima dell’avvento dell’art. 558 bis c.p. è stato mai ipotizzato che il “matrimonio forzato o precoce” integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600, comma 1 c.p.


IL CASO

La Corte d’Appello confermava la condanna per l’imputato, pronunciata per violazione dell’art. 600 c.p., aggravato ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 602 ter c.p. in relazione ad un contratto di compravendita in cui l’imputato cedeva sua figlia al “patriarca” della famiglia cui apparteneva il soggetto al quale era stata promessa in sposa, ricevendo in cambio un corrispettivo in denaro. In parziale riforma, tuttavia, i giudici di secondo grado hanno ritenuto applicabili le attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza sulle aggravanti contestate, rimodulando conseguentemente la pena.

Avvero la sentenza, proponevano ricorso per Cassazione sia il Procuratore Generale che il difensore dell’imputato. Il primo contestava l’ammissibilità dell’applicazione delle attenuanti generiche, fondata sulla particolare situazione “subculturale” in cui verserebbe l’imputato, la quale contrasterebbe con le risultanze probatorie, da cui emerge un pieno inserimento in Italia del soggetto quale destinatario di aiuti economici dai servizi sociali nonché di un alloggio popolare. Dal canto suo, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, con un primo motivo, lamenta la denegata riqualificazione dei fatti nel delitto di “induzione o costrizione al matrimonio”, previsto e punito dall’art. 558 bis c.p., che, inserito nel nostro codice dal Codice Rosso, costituisce disposizione più favorevole sopravvenuta. Al contempo, nega anche la configurabilità del reato contestato, evidenziato che egli avrebbe agito, non nel nome di una tradizione, ma secondo un vero e proprio ordinamento giuridico in cui la comunità rom, cui appartiene, si riconosce e in cui il “prezzo della sposa” non costituirebbe il corrispettivo di una compravendita, bensì il semplice ristoro della figlia per la perdita di un proprio componente.


LA QUESTIONE

La Corte di Cassazione era duplice era chiamata, da un lato, a scrutinare il rapporto tra il delitto di “riduzione o mantenimento in schiavitù” e quello di nuovo introduzione di “induzione o costrizione al matrimonio” al fine di accertare la sussistenza di una eventuale correlazione tra le due fattispecie incriminatrici astratte; e, dall’altro lato, a indagare l’effettiva influenza della asserita matrice culturale sul comportamento tenuto dall’imputato.


LA SOLUZIONE

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso dell’imputato nella parte in cui prospettava che l’introduzione del reato di cui all’art. 558 bis c.p. configurasse un’ipotesi di successione di leggi penali in riferimento al fatto già punito in precedenza ai sensi dell’art. 600 c.p., da risolversi in favore della fattispecie di nuovo conio in quanto speciale e più favorevole rispetto a quella di riduzione in schiavitù. Nello specifico, il Supremo Collegio rileva che, in presenza di un concorso apparente tra due norme succedutesi nel tempo ed entrambe vigenti al momento della commissione del fatto, ai fini dell’individuazione della disposizione applicabile nel caso concreto, deve farsi applicazione del criterio della doppia incriminabilità in astratto, che si fonda su un raffronto strutturale delle fattispecie incriminatrici al fine di ricercare l’area di coincidenza. Operando in tal modo, si evidenzia come i fatti tipizzati dalle due norme non presentano alcun elemento di contatto, dovendosi concludere per l’insussistenza, altresì, di un problema di successione tra leggi penali nel tempo.

In ordine alla censura relativa all’antinomia tra norma penale e regola di matrice culturale, la Corte ha ritenuto infondato tanto il ricorso del pubblico ministero, quanto quello dell’imputato. Infatti, è innegabile che il “fattore culturale”, accettando come normali, approvando o incoraggiando comportamenti invece stigmatizzati dall’ordinamento giuridico statale, è in grado di interferire sulla struttura del reato; tuttavia, detta immistione deve essere valutata nell’ottica di un attento bilanciamento di diritti ugualmente inviolabili. In altri termini, sebbene la Carta costituzionale e le fonti comunitarie riconoscano un diritto fondamentale dell’individuo alla tutela della propria identità culturale e religiosa, detto diritto non può mai tradursi nella negazione di beni e diritti configurati dall’ordinamento costituzionale e presidiati dalle norme penali. Infatti, tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in un rapporto di integrazione reciproca, tale da non permettere la prevalenza assoluta di uno sugli altri. Corollario è che il “fattore culturale” non può incidere sulla rilevanza penale di una condotta lesiva di beni fondamentali, ma può, in astratto, rilevare sul trattamento sanzionatorio in un’ottica rieducativa e personalistica, nonché assumere un peso ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche ovvero di altre circostanze attenuanti, ove configurabili.


Segnalazione a cura di Alessia Bruna Aloi


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