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Diritto Penale

RIDETERMINAZIONE PENA - OBBLIGO MOTIVAZIONE RINFORZATO -Cass. pen., I Sez., 16 luglio 2020, n. 21195

LA MASSIMA

“L'abbassamento per legge o incostituzionalità della soglia del minimo edittale, pur restando fermo il massimo, impone ipso iure la riduzione della pena originariamente inflitta, senza adozione di criteri aritmetico-proporzionali con l’obbligo di motivazione che si accresce più la pena rideterminata si avvicina a quella inizialmente comminata”


IL CASO

Il ricorrente è stato condannato per il delitto di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 alla pena detentiva base, pari al minimo edittale di otto anni di reclusione, come previsto dal testo originario della norma (applicabile in virtù della reviviscenza dovuta alla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme introdotte dalla legge 2006 n. 49, facendo quindi riespandere la normativa precedente).

Tuttavia, in costanza di esecuzione della pena, è intervenuta la sentenza della Consulta n. 40 del 2019, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art 73 comma 1 d.P.R. 309 del 1990, nella parte in cui fissava in otto invece che sei anni di reclusione il minimo edittale della pena detentiva.

È stato pertanto proposto ricorso in Cassazione poiché il giudice dell'esecuzione ha omesso di rivalutare il fatto alla luce della mutata cornice sanzionatoria, così venendo meno al dovere di rideterminare in melius la pena.

LA QUESTIONE

Alla Corte di Cassazione viene chiesto di stabilire se, a fronte di un mutamento sanzionatorio, in seguito a pronunce della Corte costituzionale, il giudice dell’esecuzione, nella rideterminazione della pena, sia tenuto a rinnovare il giudizio di proporzione sostanziale tra la sanzione edittale e la portata lesiva della condotta tenuta in concreto, alla luce del quadro normativo di riferimento come restaurato, o sia legittimato a procedere alla rideterminazione in base a criteri matematici-proporzionali, con l’utilizzo di automatismi che replichino le scelte originarie.


LA SOLUZIONE

Le pene previste dalla fattispecie incriminatrice ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sono state oggetto di ripetuti interventi del legislatore (Legge n.49 del 2006) e della Corte costituzionale ( n. 32 del 2014 e n. 40 del 2019), ponendo problemi di rideterminazione, in executivis, del quantum sanzionatorio.

La sentenza in esame si pone nello stesso filone giurisprudenziale inaugurato dalla celebre sentenza Gatto 2014; la citata sentenza ha sancito che nel caso in cui la dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale diversa da quella incriminatrice, che si riverberi sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, sopraggiunga prima che la pena sia stata interamente espiata, il giudice dell'esecuzione è tenuto, ove venga promosso apposito incidente, alla rideterminazione conseguente all'intervento della Corte costituzionale, cioè all'applicazione, in forza del principio consacrato dall'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della più favorevole normativa risultante dalla dichiarazione di incostituzionalità.

Tale orientamento si è consolidato con successivi arresti, tra cui va ricordata la sentenza del 2015 Jazouli, che ha confermato il principio secondo cui una pena commisurata sulla base della cornice edittale in vigore al momento del fatto, ma poi dichiarata successivamente incostituzionale, deve considerarsi illegittima, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, tronato in vigore per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità.

Ciò in quanto la commisurazione della pena è finalizzata ad individuare, nell'ambito che il legislatore ha rimesso alla discrezionalità del giudice, la giusta misura in relazione ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., condizione necessaria per assicurare il rispetto del principio della personalità della responsabilità penale.

Va quindi ribadita la necessità della rideterminazione che deriva dall'obiettiva esigenza di eliminare una pena commisurata secondo un quadro edittale non conforme al principio di legalità, per effetto della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale.

Quanto all’individuazione delle concrete modalità di intervento del giudice dell’esecuzione, nella sentenza in commento si ribadisce che l'esercizio del potere di riqualificazione sanzionatoria non autorizza ad operare in base a criteri matematico-proporzionali, né ad utilizzare automatismi che replichino le scelte sottese all'accordo originario. Il giudice deve, al contrario, procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri previsti dagli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell'adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto sia della nuova cornice edittale, che delle valutazioni già effettuate in sentenza dal giudice della cognizione con riferimento alla sussistenza del fatto e al significato ad esso attribuibile.

Il nucleo essenziale dello scrutinio va compiuto rinnovando, in applicazione del principio di adeguatezza tra il trattamento penale ed il quadro normativo di riferimento restaurato, il giudizio di «proporzione sostanziale» tra la sanzione edittale e la portata lesiva della condotta tenuta in concreto.

L'abbassamento nella soglia legale nel minimo e la relativa ponderazione legislativa influiscono ipso iure sulla pena inflitta che va necessariamente ridotta, senza l'adozione di criteri aritmetico-proporzionali, con un obbligo di motivazione che si accresce quanto più la pena rideterminata si avvicini a quella inizialmente inflitta o applicata.


Segnalazione a cura di Maria Isotta Fermani






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