MASSIMA
Non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell’ambito delle attività del sodalizio criminale ed essendo finalizzati al suo rafforzamento, non erano programmabili ab origine perché legati a circostanze ed eventi contingenti ed occasionali o, comunque, non immaginabili al momento iniziale dell’associazione. In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. In specifico ambito di continuazione non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti a titolo di continuazione a condizione che la pena base sia adeguatamente motivata.
IL CASO
Con ordinanza dell’8 novembre 2018 la Corte di Appello di Reggio Calabria, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha riconosciuto la continuazione richiesta dal condannato, limitatamente ai reati ex art. 416 bis c.p., rideterminando la pena complessiva e rigettando l’istanza per il reato di tentata estorsione aggravata commesso nel medesimo spatium temporis.
In ordine a tale rigetto il giudice dell’esecuzione ha escluso che il delitto in questione, anche se rientrante nell’oggetto del sodalizio, al quale aveva aderito l’imputato, potesse essere stato già programmato agli albori di tale partecipazione associativa, ben 24 anni prima della commissione della tentata estorsione.
Il condannato ha proposto ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza, lamentando la violazione di legge in relazione all’art. 81 c.p. e all’art. 671 c.p. e il correlato vizio di motivazione, ex art. 606, lett. b) ed e), c.p.
A parere del ricorrente la motivazione risulta contraddittoria in quanto dapprima riconosce la continuazione per le condanne ai sensi dell’art. 416 bis c.p. e successivamente sostiene che la tentata estorsione sia frutto di autonoma programmazione; si afferma infatti che è contrario alla comune esperienza che un delitto scopo maturato dal consociato durante la sua permanenza all’interno del sodalizio criminale possa essere svincolato dall’attività associativa.
Inoltre viene contestata la violazione di legge poiché non è stato motivato il criterio in base al quale il giudice dell’esecuzione ha determinato il segmento di pena a titolo di continuazione.
LA QUESTIONE
Nell’esaminare la questione in punto di diritto, la Corte di Cassazione richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale a parere del quale si ammette in linea generale la configurabilità dell’istituto della continuazione tra il reato associativo e i reati fine, cioè quelli commessi nell’ambito dell’attività del sodalizio criminale. Tuttavia la giurisprudenza ammette in astratto il vincolo della continuazione, previa verifica in concreto che i delitti scopo siano stati programmati al momento in cui il sodale entra a far parte dell’organizzazione. Non viene invece dichiarata riconoscibile la continuazione tra il reato associativo e quei delitti che non erano programmabili fin dal principio.
Tale arresto si fonda sull’assunto tale per cui, riconoscendo sempre l’ipotesi di reato continuato ex art. 81 c.p. tra il delitto associativo e ogni altro reato commesso nell’ambito del sodalizio, si finirebbe per attribuire automaticamente un’attenuazione della pena a prescindere dall’accertamento in concreto.
La Corte sostiene pertanto che è possibile individuare il vincolo della continuazione tra reato associativo e reati fine solo qualora siano ravvisabili precisi elementi che conducano ad accertare che essi fossero riconducibili all’originaria programmazione dell’attività dell’organizzazione criminale. Come presupposto imprescindibile perché sia riconosciuta la circostanza ex art. 81 c.p., la giurisprudenza richiede che l’unicità del disegno criminoso si estrinsechi come preordinazione unitaria da parte del soggetto agente delle diverse condotte illecite, almeno nelle loro linee essenziali.
Quanto al motivo di ricorso con cui si lamenta la carenza d motivazione in relazione all’eccessiva quantificazione dell’aumento di pena a titolo di continuazione, la Corte afferma che in tema di determinazione della pena, qualora venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. In relazione allo specifico ambito della motivazione è stato affermato che non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti a titolo di continuazione a condizione che la pena base sia congruamente motivata.
LA SOLUZIONE
Applicando le suddette interpretazioni al caso concreto, la Corte ha rigettato il ricorso in entrambi i motivi di gravame sostenendo che non è riconoscibile la continuazione tra il reato di cui all’art. 416 bis c.p. e quello ex art. 7, L. n. 203 del 1991 in quanto l’unico elemento concreto addotto dal ricorrente è il fatto che il delitto rientrerebbe nell’oggetto sociale. Nessun altro indizio è stato allegato per accertare che il reato di tentata estorsione aggravata rientrasse nell’originaria programmazione dell’attività del sodalizio.
Quanto alla carenza di motivazione relativa alla quantificazione della pena, i giudici di legittimità osservano che essendo la pena base fissata in oltre 10 anni di reclusione, teoricamente triplicabile come livello massimo della pena secondo quanto disposto dall’art. 81 c.p., la fissazione di un segmento di pena per l’ulteriore delitto associativo in due anni è di molto inferiore rispetto alla media del titolo e quindi non richiede una specifica motivazione. Risulta infatti una pena congrua in relazione al reato continuato globalmente considerato.
Segnalazione a cura di Lucia Marchegiani
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