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Diritto Penale

REATI CONTRO LA P.A. - OLTRAGGIO A P.U. - Corte cost., 20 dicembre 2019, n. 284

MASSIMA

“È infondata la questione di legittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio del reato di cui all’art. 341-bis, c.p., in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. poiché le rilevanti modifiche strutturali apportate al reato di oltraggio a pubblico ufficiale hanno inciso in modo significativo sul disvalore del fatto tipico, rendendolo maggiormente offensivo rispetto all’originaria formulazione e ribaltando completamente il rapporto di gerarchia offensiva con l’art. 342, c.p.”.


IL CASO

L’imputata è accusata del reato di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’art. 341-bis c.p. per aver rivolto frasi ingiuriose all’indirizzo di agenti di polizia in servizio di vigilanza dinanzi al Palazzo di giustizia di Torino, alla presenza di più persone, in particolare, altri manifestanti e passanti.

Con ordinanza del 29 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Torino, VI sez. pen., chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza della donna, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., questioni di legittimità costituzionale del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, di cui all’art. 341-bis, c.p., nella parte in cui punisce con la reclusione fino a tre anni la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.


LA QUESTIONE

La sentenza esamina la questione della ragionevolezza e proporzionalità degli attuali valori edittali di pena previsti per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’art. 341-bis c.p., anche in comparazione con i limiti edittali previsti dal diverso reato di oltraggio a Corpo politico, amministrativo o giudiziario di cui all’art. 342 c.p.

Nella sua originaria formulazione, la fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, prevista all’art. 341 c.p., è integrata da chiunque offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni e la pena prevista è la reclusione da sei mesi a due anni.

L’originario art. 342 c.p., invece, stabilisce che chiunque offende l’onore o il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, al cospetto del Corpo, è punito con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 341 del 1994, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 341, comma 1, c.p. nella parte in cui prevede la pena minima di sei mesi di reclusione, per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., anche in riferimento al più favorevole minimo edittale sancito per il reato di ingiuria di cui all’art. 594 c.p. Per effetto della decisione dei giudici costituzionali, la pena minima rimane, quindi, fissata in quindici giorni.

La decisione della Corte costituzionale ha importanti ripercussioni sia sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale, sia su quello di cui all’art. 342 c.p. Il primo è, infatti, addirittura abrogato con l. 25 giugno 1999, n. 205; il secondo subisce la modifica del minimo edittale, rideterminato in quindici giorni.

Da quanto evidenziato, emerge una certa tendenza del legislatore a considerare l’oltraggio singolo meno grave di quello recato ad un Corpo politico, amministrativo e giudiziario.

Senonché, l’oltraggio a pubblico ufficiale viene successivamente reintrodotto ad opera della l. 15 luglio 2009, n. 94, che inserisce nel codice penale un nuovo art. 341-bis.

Attualmente, «chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende onore e prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».

Occorre precisare, in via preliminare, che al caso di specie non si applica la previsione del minimo edittale di sei mesi, introdotta di recente dalla l. 8 agosto 2019, n. 77. Poiché il fatto oggetto del giudizio in esame risale ad un momento antecedente alla modifica normativa, rispetto ad esso opera il regime di pena minima determinata in quindici giorni di reclusione ai sensi dell’art. 23, c.p.

Ciò chiarito, ad avviso del giudice rimettente l’art. 341-bis c.p. sarebbe costituzionalmente illegittimo, in primo luogo, per violazione dell’art. 3 Cost.

In particolare, il trattamento sanzionatorio riservato all’oltraggio a pubblico ufficiale si presenterebbe irragionevolmente sproporzionato per eccesso rispetto a quello previsto per il delitto di oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, di cui all’art. 342 c.p. La norma da ultimo citata punisce, attualmente, il fatto di oltraggio con la sola pena pecuniaria da 1000 a 5000 euro.

Entrambi i reati sarebbero lesivi del medesimo bene giuridico, ossia l’onore e il prestigio di pubblici ufficiali e tutelerebbero, in ultimo, interessi sostanzialmente identici: nel caso di cui all’art. 341-bis c.p., l’offesa dovrebbe essere rivolta contro un singolo pubblico ufficiale; nell’ipotesi prevista dall’art. 342 c.p., la lesione di onore e prestigio dovrebbe riguardare «due o più pubblici ufficiali che operano in sinergia tra di loro».

In secondo luogo, il giudice rimettente ritiene la pena massima di tre anni di reclusione contrastante con il principio di proporzionalità di cui all’art. 27, comma 3, Cost., letto anche alla luce dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta di Nizza e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’ordinanza di rimessione conclude suggerendo il possibile meccanismo riparatorio delle violazioni prospettate: assumendo l’art. 342, c.p. come “tertium comparationis”, sarebbe sufficiente dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 341-bis, c.p. nella parte in cui non prevede, per il reato di cui al comma 1, la pena della multa da 1000 a 5000 euro.


LA SOLUZIONE

La Corte costituzionale ritiene infondate le questioni di costituzionalità prospettate.

Molteplici argomenti militano in favore della conclusione secondo cui il trattamento sanzionatorio differenziale (e più severo) del reato di cui all’art. 341-bis c.p., rispetto a quello di cui all’art. 342 c.p., non è in contrasto con i valori costituzionali.

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, rispetto alla sua originaria formulazione, ha subito modifiche strutturali che hanno inciso sul fatto tipico, rendendolo maggiormente lesivo dei beni tutelati.

Si prevede oggi che la condotta offensiva dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale debba essere tenuta in luogo pubblico o aperto al pubblico ed alla presenza di più persone, nel momento in cui il pubblico ufficiale sta compiendo un atto del suo ufficio. Non hanno più rilevanza penale, pertanto, le offese conferite in un contesto spazio-temporale diverso da quello tipizzato.

L’espressione «mentre compie un atto d’ufficio» introduce un requisito di stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale. Detto requisito, se da un lato restringe l’ambito applicativo della nuova fattispecie rispetto a quella previgente, dall’altro ne incrementa la dimensione offensiva. La fattispecie di oltraggio attualmente in vigore affianca, infatti, ai beni giuridici tradizionalmente presidiati, anche il regolare esercizio della pubblica funzione svolta.

È proprio tale profilo, secondo i giudici costituzionali, ad aver segnato il capovolgimento della gerarchia tra c.d. “oltraggio singolo” e oltraggio a Corpo del potere pubblico: in quest’ultima fattispecie la compromissione del regolare esercizio della pubblica funzione è elemento sfumato e meramente eventuale, atteso che l’art. 342 c.p. richiede semplicemente che l’espressione offensiva sia posta in essere al cospetto del corpo o mediante comunicazione offensiva “a distanza”, «senza esigere alcun nesso con il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte dell’istituzione offesa».

La Corte costituzionale ritiene, altresì, infondata anche la questione relativa alla proporzionalità della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost.

I giudici costituzionali affermano che la proporzionalità c.d. “intrinseca” della pena può essere oggetto di diretto sindacato costituzionale quando il trattamento sanzionatorio comminato sia manifestamente eccessivo rispetto al fatto posto in essere, dovendosi poi ricercare nel sistema punti di riferimento già esistenti per ricostruire «in via interinale un nuovo quadro sanzionatorio in luogo di quello colpito da declaratoria di incostituzionalità».

Detto sindacato è giustificato nelle ipotesi in cui ad essere sproporzionato in eccesso sia il minimo edittale o siano previsti automatismi sanzionatori irragionevoli volti a neutralizzare la discrezionalità del giudice nella dosimetria del trattamento sanzionatorio.

Nel caso in esame, invece, il rimettente contesta il valore massimo edittale, rispetto al quale il giudice dispone di numerosi strumenti idonei ad un’eventuale riduzione del trattamento sanzionatorio e dei quali può servirsi per adeguare la pena alle caratteristiche del fatto concreto.

La Corte sottolinea, a tal proposito, che laddove il rimettente avesse effettivamente inteso dolersi del solo massimo edittale previsto dall’art. 341-bis, c.p., la censura non sarebbe stata infondata, ma inammissibile per irrilevanza: l’ordinanza di rimessione, infatti, non spiega le ragioni per le quali il giudice “a quo” non avrebbe potuto, semplicemente facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133, c.p., modulare la pena in modo da renderla più contenuta e in concreto proporzionata al disvalore del fatto.

Tuttavia, la Corte costituzionale ha voluto intendere la censura come riferita non prettamente al massimo edittale, ma al complessivo quadro sanzionatorio previsto dall’art. 341-bis, c.p., includendo, quindi, anche il minimo edittale che, al momento di commissione del fatto oggetto di giudizio, era di quindici giorni.

Di qui, il giudizio di infondatezza della censura, basato sulla circostanza che la sostituzione automatica dell’originaria pena minima di sei mesi di reclusione con quella, risultante dall’art. 23, c.p., di quindici giorni di reclusione, è già stata ritenuta implicitamente compatibile con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., dalla citata sentenza n. 341 del 1994, in relazione all’originaria fattispecie di cui all’art. 341, c.p., caratterizzata, come visto, da un minor valore offensivo rispetto a quella attuale di cui all’art. 341-bis, c.p.


Segnalazione a cura di Veronica Proietti


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