LA MASSIMA
“La minaccia che integra il delitto di rapina può essere esercitata mediante qualsiasi comportamento che, prospettando un male alla persona offesa, ne limiti la libertà di determinazione, con la conseguenza che il reato sussiste qualora, come nel caso in esame, l'agente, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione personale, in tal modo comprimendo la libertà psichica della vittima, per impossessarsi dei beni altrui”.
IL CASO
La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto l’imputato responsabile di concorso nel delitto di rapina. Questi, infatti, si era falsamente qualificato in termini di operatore di polizia e, avvalendosi di una minaccia implicita dell’esecuzione di perquisizione personale e del sequestro del denaro, si era impossessato del denaro della vittima, privata della capacità di autodeterminarsi liberamente.
Con i primi due motivi di ricorso, il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di legge in ordine alla qualificazione del fatto come rapina anziché come furto aggravato ex art. 625 n. 5 c.p., nonché il vizio di omessa motivazione circa le ragioni per cui il reato doveva ritenersi consumato e non tentato.
LA QUESTIONE
La questione sottoposta all’esame della Corte di Cassazione consiste nella delimitazione dell’ambito applicativo dei delitti di rapina e furto aggravato dalla simulazione della qualità di pubblico ufficiale.
Essa si inscrive nell’alveo di una giurisprudenza che, già da qualche decennio, sussumeva nella fattispecie astratta di cui all’art. 628 c.p. il fatto concreto della sottrazione di oggetti durante una finta perquisizione, posta in essere da falsi poliziotti (Cass. IV Sez., 1 agosto 1985, in Giust. Pen. 1986, 362, m. 390; in dottrina P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Vol. I, delitti contro la persona e contro il patrimonio, VI ed., pp. 512-513), nonché l’ipotesi dei finti carabinieri che pongano in essere atti di coazione finalizzati a impossessarsi del denaro delle vittime (Cass. II Sez., 15 settembre 2017, n. 45300). In questi casi, i precedenti giurisprudenziali hanno sempre valorizzato il legame tra impossessamento e timore incusso dall’atteggiamento del reo, laddove il mero sfruttamento dell’elemento sorpresa, ingenerato dalla prospettazione di una qualifica inesistente, avrebbe integrato la fattispecie di cui all’art. 625, n. 5 c.p.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione conferma il descritto consolidato orientamento, e statuisce che la prospettazione di un male ingiusto, derivante dall’implicita minaccia di eseguire misure limitative della libertà personale, integra la minaccia quale elemento costitutivo del delitto di rapina. L’agente, infatti, non si limita a esternare una falsa qualificazione di pubblico ufficiale, ma se ne avvale quale presupposto per minacciare, anche solo implicitamente, la vittima.
Conseguentemente, l’impossessamento dei beni del soggetto passivo transita attraverso la limitazione della libertà di autodeterminazione di quest’ultimo, che ogni cittadino è disposto a tollerare in virtù della presunzione di legittimità dei comportamenti dei pubblici ufficiali ex artt. 13 ss. Cost., autorizzati a eseguire coattivamente provvedimenti limitativi solo se e in quanto il loro potere trovi fondamento nella legge.
Nel caso di specie, poi, la rapina è da ritenersi consumata e non tentata, in quanto il denaro era passato nell'esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità degli agenti, con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio e vigilanza.
Alla luce di tali premesse, la Suprema Corte dichiara irrevocabilmente la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 628 c.p.
Segnalazione a cura di Antonino Ripepi
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