di Tiziana Caboni
Il principio di proporzionalità è un principio centrale nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia penale, in quanto rappresenta un limite logico al potere punitivo nello Stato di diritto, insito nel concetto retributivo di pena, esprimendo in tal modo un’esigenza elementare di giustizia. Come è noto, le scelte di politica sanzionatoria sono coperte da riserva di legge ex art. 25 Cost, essendo il legislatore l'unico soggetto deputato alla determinazione dell'an (se punire), del quomodo (tipo della sanzione) e del quantum di pena (ossia, la sua misura edittale). Il sistema costituzionale, tuttavia, nell'interpretazione fornita dalla stessa Consulta attribuisce un'ampia discrezionalità al legislatore nella scelta della tipologia della pena e della sua misura, dovendo essere la punizione irrogata proporzionata alla gravità del reato, oggettiva e soggettiva. Le pene determinate dal legislatore in maniera fissa vengono infatti sospettate di incostituzionalità: tale presunzione trova il suo fondamento nel principio di personalità della responsabilità penale e del suo naturale corollario della necessaria individualizzazione della pena, che subirebbero un vulnus qualora si ammettesse una predeterminazione del quomodo e del quantum di pena; difatti tali principi richiedono che la configurazione astratta della sanzione sia individuata in relazione ad una forbice edittale, con un limite minimo e un limite massimo, tale da consentire al giudice di individuare in concreto la pena applicabile per il fatto posto in essere dal reo. La Corte Costituzionale, tuttavia, nel valutare la legittimità di tali sanzioni, fa riferimento a meri indizi incostituzionalità e non ad una presunzione assoluta, ritenendole legittime ogni qualvolta dall'analisi della struttura del reato risulti che la pena sia proporzionata rispetto all'intera gamma dei fatti che ricadono nell'ambito di applicazione della norma incriminatrice. La pacifica discrezionalità del legislatore nella determinazione del quantum di pena soggiace tuttavia a precisi limiti posti in stretta connessione con il principio di proporzionalità. Un primo limite è rappresentato dal principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., che impone, in materia penale, di sanzionare fatti con diverso disvalore sociale in maniera diversa e fatti con eguale disvalore sociale in maniera eguale. Esso presuppone una comparazione da cui deriva il logico corollario del principio di proporzionalità. Il secondo limite al principio di proporzionalità trova il suo fondamento normativo dell’art. 27, comma 3, Cost. in quanto la funzione rieducativa che la norma assegna alla pena impone una valutazione in termini di proporzionalità della sanzione, potendo essere recepita dal reo come giusta e quindi idonea ad avviare un percorso di rieducazione solo una pena proporzionata al reato. Ulteriore limite alla discrezionalità del legislatore è rappresentato dal principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27, comma 1, Cost., e dal conseguente corollario della individualizzazione della pena, dovendo la sanzione, nel passaggio dalla previsione astratta alla sua applicazione concreta da parte del giudice, essere proporzionata alla gravità della condotta, sul piano soggettivo e oggettivo. Infine, un quarto limite al potere riconosciuto al legislatore nella determinazione della misura della pena viene rinvenuto nelle fonti sovrannazionali e, in particolare, nell'art. 49 CEDU: tale norma, infatti, stabilisce espressamente una proporzionalità della pena inflitta rispetto alla gravità del reato. La natura del sindacato di proporzionalità della pena ha subito nel corso del tempo una profonda evoluzione nella giurisprudenza che, da una concezione iniziale in termini necessariamente comparativi, è giunta ad affermare la necessità di bilanciamento tra l'esigenza di tutela sociale, sottesa alla funzione preventiva della pena, e quella di tutela della libertà personale. In tale ottica, la questione del rispetto del principio di proporzionalità della pena da parte del legislatore, a monte, e del giudice, a valle, nella sua determinazione si è posta con particolare riferimento alle pene accessorie. Tali sanzioni, elencate all’art. 19 c.p. e descritte nel loro contenuto e nelle loro modalità di applicazione negli articoli successivi, assolvono ad una finalità generalpreventiva, cui autorevole dottrina ha affiancato una finalità specialpreventiva, volta all’eliminazione obiettiva delle condizioni atte a consentire una ricaduta del reo. Carattere normale delle sanzioni accessorie è l’automaticità, essendo le stesse naturale conseguenza della condanna principale irrogata dal giudice, il che esclude che quest’ultimo le debba applicarle espressamente, eccetto nell’ipotesi in cui sia lo stesso legislatore a prevederle come facoltative. Ulteriore carattere è anche quello dell’indefettibilità, dato dalla non estensibilità alle stesse della sospensione condizionale della pena. Le pene in esame possono essere perpetue o temporanee. Nel secondo caso, la loro durata è di regola predeterminata dal legislatore e, in mancanza, è pari a quella della pena principale inflitta. In ogni caso è fatta espressa esclusione all’art. 37 c.p. del riconoscimento di un potere in capo al giudice oltrepassare i limiti edittali fissati per ciascuna specie di sanzione. Inoltre nel computo delle pene accessorie temporanee non si tiene conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva o è sottoposto ad una misura di sicurezza o si è volontariamente sottratto alla loro esecuzione. Proprio sulla portata applicativa e sull’interpretazione dell’art. 37 c.p. si è concentrata l’attenzione della giurisprudenza per lungo tempo animata da un contrasto giurisprudenziale nato dall’esigenza di individuare in maniera certa la commisurazione ad opera del giudice della durata delle sanzioni accessorie temporanee. Un primo orientamento, maggioritario nella giurisprudenza di legittimità e avallato dalle Sezioni Unite nel 2014, affermava la necessaria applicazione dell’art. 37 c.p. in caso di non espressa determinazione da parte del legislatore della durata della pena accessoria, con conseguente riferimento alla durata della pena principale inflitta al reo. Secondo tale orientamento, rientravano nel novero delle pene accessorie di durata “non espressamente determinata dalla legge penale”, alle quali si applica la previsione di cui all’art. 37 c.p., quelle per le quali fosse previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto di tali limiti, con esclusione delle pene accessorie perpetue e di quelle temporanee predeterminate nella durata dal legislatore. A sostegno di tale ricostruzione le Sezioni Unite hanno addotto, in primo luogo, il rispetto dei principi costituzionali della necessaria individualizzazione e della funzione rieducativa della pena, che guidano il giudice di merito nell’applicare la pena principale. La giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che presupposto della predeterminazione per legge della durata della pena accessoria è l’assenza di un margine di discrezionalità nell’applicazione della pena, il che non si verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare o addirittura un solo limite minimo o massimo, come confermato dall’art. 183 disp. att. c.p.p., in forza del quale è possibile rimediare, in sede esecutiva e in malam partem, all’omissione dell’applicazione di una pena accessoria, purché “predeterminata nella specie e nella durata”. Le Sezioni Unite rinvengono un ulteriore argomento a favore di tale ricostruzione anche nell’inciso finale dell’art. 37 c.p., ritenendo che il legislatore abbia stabilito implicitamente con esso l’applicazione del criterio di equiparazione di durata tra pena principale e pena accessoria, anche qualora sia previsto un limite minimo o massimo, data anche la collocazione sistematica della norma a chiusura del capo riservato alle pene accessorie. Altro orientamento, al contrario, propende per la non applicabilità della citata disposizione, essendo invece tenuto il giudice ad una valutazione autonoma del quantum di sanzione accessoria da applicare nel caso concreto, sulla base dei criteri dettati dal legislatore all’art. 133 c.p. Secondo questa tesi, tale operazione consentirebbe alla pena accessoria di avere una durata differente da quella della pena principale a condizione, tuttavia, del suo contenimento entro i limiti fissati per legge, in relazione alla specifica fattispecie incriminatrice. In particolare, la ricostruzione in esame è avallata dalle conclusioni formulate dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 222 del 2018, che ha dichiarato parzialmente illegittima la fattispecie incriminatrice della bancarotta fraudolenta, ex art. 216 l. fall., nella parte in cui predeterminava nella misura fissa di 10 anni la durata delle relative pene accessorie, anziché prevederne l’applicazione “fino a 10 anni”. La Consulta ha infatti ritenuto la norma incompatibile con i principi di proporzionalità, ex artt. 3 e 27, comma 3, Cost., e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, sopra esaminati. L’illegittimità costituzionale della disposizione della legge fallimentare è stata ravvisata nel carattere fisso e indifferenziato della durata decennale delle pene accessorie, che si traduceva, di fatto, nell’inflizione di pene accessorie manifestamente sproporzionate rispetto a quelle fattispecie concrete di bancarotta che, anche se caratterizzate da un disvalore relativamente più lieve, erano punite con lo stesso severo trattamento sanzionatorio. Per tale ragione la Consulta ha sostituito la previsione della durata fissa decennale della pena accessoria con la previsione di un limite massimo “fino a” dieci anni, così consentendo al giudice di determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella inerente alla commisurazione della pena principale, la durata delle pene accessorie, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. Il contrasto giurisprudenziale così delineato è stato composto da un recente arresto delle Sezioni Unite del 2019, che, aderendo al secondo orientamento, hanno statuito che le pene accessorie per le quali la legge non indica un termine di durata fissa devono essere determinate in concreto dal giudice facendo applicazione dei suddetti criteri di cui all'art. 133 c.p., propendendo, pertanto, per una commisurazione autonoma, stante la tendenziale illegittimità costituzionale di qualsivoglia automatismo sanzionatorio; secondo le Sezioni Unite pena deve essere infatti connotata da una necessaria mobilità e individualizzazione, che verrebbero vulnerati da un meccanismo di calcolo che, per quanto mediato dal legame alla misura della pena principale fissata in via discrezionale del giudice, costituisce un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo. Secondo la Suprema Corte, pertanto, la pena accessoria, così come quella principale, può risultare costituzionalmente legittima solo quando effettivamente proporzionata e individualizzata, in linea, del resto, con la menzionata funzione special-preventiva delle sanzioni accessorie, specie quelle interdittive e in abilitative, attuata mediante l’allontanamento forzato del reo dal contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale siano maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare in futuro i reati e consentire così la sua emenda.
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