LA MASSIMA
“Si configura il delitto di omicidio volontario - e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida - nell'ipotesi in cui la condotta dell'agente, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte del medesimo anche solo dell'eventualità che dal suo comportamento potesse derivare la morte del soggetto passivo”.
IL CASO
La Corte d’Assise d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa nel giudizio di primo grado celebrato con rito abbreviato, ha condannato l’imputato a quattordici anni di reclusione per omicidio volontario e rapina aggravata.
Avverso la sentenza di secondo grado, la difesa proponeva ricorso per Cassazione chiedendone l’annullamento per diversi motivi, tra cui vizio di motivazione in relazione alla qualificazione del reato di omicidio ascritto all’imputato.
A tal proposito, le argomentazioni su cui poggia la qualificazione in termini di omicidio volontario, con conseguente esclusione dell’ipotesi delittuosa di omicidio preterintenzionale, sono rinvenibili in diversi elementi, quali: la duplicità dei colpi inferti alla vittima, gli esiti della consulenza tecnica disposta dal PM, unitamente alla deposizione aggiuntiva della consulente, e le intercettazioni intercorse tra l’imputato e un amico.
Invero, a parere della difesa, l’elemento soggettivo che avrebbe connotato la condotta delittuosa andrebbe configurato alla stregua del dolo eventuale, di talché, si chiedeva una rideterminazione della pena da irrogare, in misura congrua rispetto all’intensità del dolo.
Più nel dettaglio, la ricostruzione della difesa fa leva sulla ritenuta incompatibilità tra omicidio volontario e rapina, atteso che, se l'intenzione iniziale dell'aggressore era quella di sottrarre la catenina alla vittima con violenza al fine di trarre un profitto, doveva escludersi il dolo omicidiario; mentre, se la volontà dell'agente era quella di uccidere l'aggredito, allora egli avrebbe risposto a titolo di furto con strappo ex art. 624 bis c.p. e non di rapina.
LA QUESTIONE
La questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte con la sentenza in commento riguarda l’individuazione del discrimen tra la fattispecie di omicidio volontario ex art. 575 c.p. e quella di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p., alla luce della ricostruzione dell’animus necandi e, più in generale, dell’elemento soggettivo nel caso di specie.
LA SOLUZIONE
Con la sentenza in commento, la I Sezione della Corte di Cassazione ritiene di poter condividere l’inquadramento giuridico operato dal giudice di primo grado e dalla Corte d’Assise d’Appello in relazione alla condotta ascritta all’imputato in termini di omicidio volontario ex art. 575 c.p.
A conforto di tale qualificazione, la Cassazione richiama le valutazioni operate dal consulente del PM nei chiarimenti resi in secondo grado, nonché la dinamica con cui l’azione aggressiva posta in essere dall’imputato ha provocato lesioni alla vittima.
Il dubbio sorto in sede di gravame riguardava l’unicità del colpo sferrato dall’imputato, con conseguente possibilità di ricomprendere la condotta nella più mite fattispecie di omicidio preterintenzionale.
Tuttavia, tale circostanza è stata smentita dalla conversazione intercettata nella quale il ricorrente, rivolgendosi al proprio interlocutore, affermava chiaramente di aver dato due colpi in testa alla vittima.
Ulteriore conferma emerge, altresì, dalla consulenza tecnica che ha riscontrato l’obiettiva entità delle lesioni, oltre che la corretta specificazione dell’allocazione delle stesse.
In particolare, dalle considerazioni medico-legali che hanno attestato una prima lesione alla nuca e una seconda lesione in sede frontale non riconducibile ad una caduta per modalità ed entità, la Corte ha desunto la condotta particolarmente aggressiva dell’imputato, il quale, dopo aver sferrato il primo colpo, ha replicato, con la medesima violenza, un secondo colpo alla persona offesa già abbattuta.
Pertanto, la Cassazione ha ritenuto che l’escalation di tali condotte sia stata sorretta da volontà omicida (dolo d’impeto) nella forma del dolo alternativo, avendo cioè l’imputato consapevolmente previsto e voluto, alternativamente alla determinazione delle lesioni, anche la conseguente morte del soggetto a causa della propria azione, accettando non solo il rischio, ma anche l’evento morte.
Segnalazione a cura di Gabriella Venezia
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