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Diritto Penale

OMICIDIO COLPOSO - RIFIUTO CURE - Cass. Pen., Sez. IV, sentenza del 24.01.2020 n. 2865

MASSIMA “Non sussiste il reato di omicidio colposo se, ipotizzata come realizzata la condotta omissiva dei sanitari, non sia possibile affermare con alta probabilità che tali contestate condotte avrebbero evitato, al di là di ogni ragionevole, dubbio il decesso del paziente”. IL CASO La persona offesa, dopo aver perso conoscenza a seguito dell’assunzione di massicce dosi di un farmaco, ritrovatosi in ospedale e rifiutato il ricovero nonché ogni forma di assistenza o trattamento sanitario, è deceduta. I giudici di prime cure e la Corte d’Appello hanno assolto il sanitario dal reato di cui agli artt. 40, comma 2 e 589 c.p. per insussistenza del fatto, ritenendo impossibili interventi salvavita a fronte del fermo rifiuto del paziente. Avverso la sentenza di secondo grado, le parti civili hanno proposto ricorso per Cassazione, ritenendo ingiustificato il mancato ricovero forzato del paziente, che avrebbe garantito l’erogazione di idonee cure in degenza ospedaliera, evitandone il decesso. I sanitari avrebbero, dunque, violato le norme relative al consenso informato ed ai trattamenti sanitari obbligatori ed avrebbero omesso di valutare la capacità di intendere e volere del paziente che, affetto da una grave forma di schizofrenia accertata ed incapace di controllare gli impulsi ed avere piena coscienza della propria patologia, pur avendo manifestato riluttanza al ricovero ospedaliero, sarebbe dovuto essere immediatamente sottoposto a cure. Sicché, i sanitari, consapevoli della gravità dell’avvelenamento ed incerti sulla dose di farmaco ingerita, avrebbero dovuto sottoporre il paziente a trattamenti forzati, senza tener conto della volontà da questi espressa.

LA QUESTIONE La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso e confermato l’assoluzione del sanitario, richiamando i principi in materia di nesso causale, in particolare di reato colposo omissivo improprio. I giudici di legittimità hanno ricordato il principio in base al quale “per stabilire la sussistenza del nesso di causalità, posta in premessa una spiegazione causale dell'evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, occorre successivamente verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l'attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata”. Sicché, valutando le evidenze processuali, per accertare la sussistenza di un’eventuale addebito di responsabilità, è necessario verificare se, dando come avvenuta la condotta omessa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale prossimo alla certezza, non si sarebbe verificato, oppure si sarebbe verificato molto dopo o con inferiore intensità lesiva. Dunque, in materia di responsabilità medica, il nesso causale sarebbe ravvisabile esclusivamente allorquando, all’esito di un giudizio controfattuale condotto alla strega di una regola di esperienza o di una legge scientifica, si accerti che l’evento del decesso non si sarebbe verificato se la doverosa condotta omessa impeditiva dell’evento fosse stata realizzata. La sussistenza del nesso causale, peraltro, non potrebbe essere automaticamente dedotta dall’elevato coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, essendo necessario, invece, verificarne la validità nel caso concreto, alla luce dell’attenta valutazione delle evidenze processuali.

LA SOLUZIONE Alla luce delle risultanze probatorie, i giudici di ultima istanza hanno confermato la sentenza assolutoria della Corte territoriale, data l’impossibilità di affermare, con probabilità prossima alla certezza, che la realizzazione delle doverose condotte omesse dal sanitario avrebbe evitato l’evento mortale del paziente al di là di ogni ragionevole dubbio. Non essendo certa la quantità di farmaco ingerita ed essendo, invece, plausibile l’immediata efficacia letale dell’antipsotico sin dal momento della sua assunzione, non è possibile affermare che la terapia d’urgenza avrebbe prodotto, al di là di ogni ragionevole dubbio, effetti salvifici sia al momento dell’intervento domiciliare del primo sanitario, che al momento della presa in carico del paziente nella struttura ospedaliera.

Segnalazione a cura di Francesca Miccoli


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