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Diritto Penale

Offensività in concreto e particolare tenuità del fatto, con riferimento a cessione di canapa light

Svolgimento a cura di Vittorio La Battaglia


La necessaria offensività del reato è quel principio che subordina la sanzione penale all’effettiva offesa di un bene giuridico, tanto nella forma della lesione, intesa come nocumento effettivo, quanto in quella dell’esposizione a pericolo, concepita in termini di nocumento potenziale. La punibilità, alla luce del principio di offensività, è, quindi, condizionata all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Nell’ambito di un diritto penale dell’offesa, iscritto a sua volta all’interno di un ordinamento a legalità formale, occorre, quindi, adottare una concezione “realistica” o “necessariamente lesiva” del reato inteso come fatto offensivo tipico. In tale concezione, in una visione congiunta del principio di materialità e di legalità, deve considerarsi reato soltanto il fatto previsto dalla legge come tale, ma che deve essere costruito dalla medesima in modo tale da essere necessariamente offensivo dell’interesse specifico tutelato dalla norma. In tale ottica, l’offesa assurge ad elemento costitutivo del reato accanto agli altri elementi strutturali della fattispecie. Da quì, la necessità di riformulare la teoria generale del reato su base costituzionale adottando la definizione del reato come fatto tipico offensivo (nullum crimen sine iniuria). A tale lettura, inoltre, deve affiancarsi un’analisi congiunta del principio di offensività e di materialità del fatto, che porta ad un’ulteriore delimitazione dell’area dell’illecito penale. Infatti, se il principio di materialità assicura il soggetto contro le incriminazioni di meri atteggiamenti interni, il principio di offensività garantisce contro l’incriminazione di fatti sì materiali ma non offensivi. Precipitato logico di quanto affermato è che il principio di offensività, quale canone di costruzione legislativa, preclude al legislatore di incriminare atteggiamenti interiori, semplici opinioni o mere condotte di vita, e, quale criterio interpretativo, impone al giudice di accertare, al pari degli altri elementi costitutivi, se nel caso concreto vi è stata una lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice. Corollario di questa impostazione è che il cittadino non potrà essere punito né per un mera disubbidienza, né per la sola pericolosità sociale del proprio agire. Evidente, quindi, il rifiuto del legislatore per qualsiasi modello di diritto penale a base soggettivistica incentrato sulla volontà e/o sulla pericolosità del soggetto. Quanto al fondamento del principio in questione, la necessaria offensività è espressione di derivazione Costituzionale. Tale costituzionalizzazione del principio di offensività, che affonda le radici nel contesto sociopolitico costituzionale, può, in primis, desumersi dal generale principio per cui ogni diritto costituzionalmente garantito (ancora di più il supremo diritto alla libertà personale ex art. 13 Cost) non può essere compresso ad opera della sanzione penale, se non per la tutela di un altro concreto interesse costituzionale; sicché l’irrogazione di una sanzione penale, limitativa del diritto alla libertà, può essere emessa solo come reazione ad una condotta che offenda un bene di pari rango. A ciò aggiungasi che l’art. 25, c.II, Cost., subordinando la sanzione penale alla commissione di un fatto, restringe l’ambito di applicazione della punizione penale alle sole condotte materiali ed offensive e non la mera disobbedienza; atteso che, in caso contrario, la pena non potrebbe svolgere la sua funzione di orientamento culturale, che presuppone appunto l’incriminazione e la punizione di fatti offensivi. Infatti, posto quale presupposto della rieducazione del condannato la percezione dell’antigiuridicità e dell’aggressività sociale del proprio comportamento, la condanna per mere violazioni di doveri o per condotte non offensive di alcun bene, frustrerebbe la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27, c.III, Cost.. Inoltre, se si sanzionasse con una pena una condotta non offensiva, ma di semplice disobbedienza, seppur indice di futuri reati, si finirebbe per assegnare alla pena il ruolo proprio della misura di sicurezza; andando, in tal modo, in contrasto con le differenze sancite agli artt. 25 e 27 Cost. Per di più, il principio di offensività parrebbe trovare anche un fondamento meramente codicistico nell’art. 49 c.II che esclude la punibilità per il reato impossibile. Anche la giurisprudenza costituzionale, con le sentenze interpretative che si sono avvicendate da fine degli anni ‘80 ad inizio degli anni ‘90, ha dato di tale principio una “doppia lettura” in astratto e in concreto, riferite rispettivamente al legislatore e all’interprete. Tale principio - come detto- in astratto, impone al legislatore di incriminare condotte lesive o pericolose di beni giuridici meritevoli di tutela; mentre, in concreto, vincola il giudice a quo ad interpretazioni della norma incriminatrice coerenti, per quanto possibile, con l’esigenza a che siano assicurate la lesività o pericolosità del fatto concreto. In particolare, relativamente alla coltivazione di sostanze psicotrope, nella sentenza del 1995 - ove è sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale l’art. 26 D.P.R. 309, per violazione del principio di offensività, nella parte in cui prevede l’illiceità penale della condotta indipendentemente dalla quantità di principio attivo contenuto nel prodotto della coltivazione - la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione, sull’assunto secondo cui l’accertamento circa l’assoluta inidoneità della coltivazione a mettere a repentaglio il bene protetto spetta al giudice di merito; statuendo, in tal modo, la doppia valenza del principio di offensività. Quanto all’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, questo è stato introdotto dal D. lgs 28/2015 mediante l’inserimento dell’art. 131 bis, il cui primo comma recita: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. E' evidente, dunque, che requisiti indefettibili ai fini dell'applicabilità dell'istituto de quo sono rappresentati- in primis- dalla riconducibilità della condotta antigiuridica del reo nell'alveo di fattispecie incriminatrici punite con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, e - in secundis- dalla particolare tenuità dell’offesa che va valutata in concreto ed in rapporto all’intero disvalore del fatto, non solo rispetto all’esiguità del danno o del pericolo, ma anche alle modalità della condotta, da valutarsi ai sensi dell’art. 133 c.I c.p. A questi requisiti va aggiunta la non abitualità del comportamento che è esclusa ex art. 131 bis c. III per esigenze di previsione speciale nei casi in cui il soggetto sia dichiarato delinquente abituale o professionale, nel caso di autore di più reati della stessa indole (anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità) e nei casi di reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Inoltre, l’offesa di particolare tenuità è esclusa ope legis ex art. 131 bis c.II quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili o per crudeltà verso le persone o anche in danno di animali. Dibatutta la natura giuridica sostanziale o processuale della introdotta causa di non punibilità. Prevale la tesi secondo cui, venendo l’istituto in gioco in presenza di una particolare tenuità dell’offesa, lo stesso presupponga un fatto tipico, colpevole e antigiuridico, ma anche offensivo. Ne consegue che la non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. si spiega in considerazione di ragioni di opportunità politico criminale, proprie delle cause di non punibilità in senso stretto. Si tratta, quindi, di una speciale causa di non punibilità per le condotte che, pur integrando gli estremi del fatto tipico, antigiuridico e colpevole, appaiono non meritevoli di pena in ragione dei principio generalissimo di proporzione ed economia processuale. La detta qualificazione del 131 bis come istituto di natura sostanziale, riconducibile ad una causa di non punibilità in senso stretto, ha delle significative ripercussioni in punto di diritto intertemporale. Infatti, facendo leva sulla natura sostanziale dell’istituto, la Cassazione a Sezione Unite ha riconosciuto l’applicabilità retroattiva della novella a fatti commessi precedentemente alla sua entrata in vigore. Tale applicazione retroattiva, tuttavia, ha incontrato il limite del giudicato, in quanto, considerata quale causa di esclusione della punibilità in senso stretto, non si ritiene abbia comportato alcuna abolitio criminis, pertanto prevedendo un applicazione dell’art. 2 c. IV c.p.. Ulteriore questione controversa attiene all’applicabilità del 131 bis c.p. a reati per i quali il legislatore subordina la rilevanza penale del fatto al superamento di soglie espresse di punibilità. Sul punto la Sezioni Unite hanno sostenuto la compatibilità dell’istituto previsto dal 131 bis con i reati con soglia, in quanto il giudice a quo se ritiene, a seguito di una valutazione complessiva della modalità della condotta, dell’esiguità del danno o del pericolo e dell'intensità dell’elemento psicologico, può escludere in concreto la punibilità quale che sia il livello soglia previsto; senza, quindi, che possa rinvenirsi un’incompatibilità strutturale dell’istituto con i reati con soglia. Inoltre, l’art. 131 bis non ha mancato di suscitare questioni neppure in ordine alla legittimità costituzionale del limite massimo edittale cui è collegata, in linea astratta, l’applicabilità della causa di non punibilità. Tuttavia la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione in quanto, la stessa misura del limite edittale individuata dal legislatore, non appare manifestatamene irragionevole, anche in considerazione del fatto che detto limite risponde ad una precisa funzione politico criminale, la cui analisi è riservata al legislatore con il solo limite dell’irragionevolezza. Ciò posto, occorre vagliare i profili di interferenza tra gli "istituti" de quibus (principio di offensività ed esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) e la disciplina dettata in materia di "canapa light"(L. 242/2016). Preliminarmente è doveroso precisare che con la legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, il legislatore ha previsto, in presenza di determinate condizioni, la liceità della coltivazione e della detenzione della c.d “cannabis sativa L”, più comunemente nota come “cannabis light”. Da una puntuale esegesi dei lavori preparatori e dell’art. 1 della predetta legge emerge che la ratio della normativa da qua sia rinvenibile nell’obiettivo di promuovere la filiera agroindustriale della canapa per fini di sviluppo del settore primario. A ciò aggiungasi che al co. 2 dell’art. 1, il legislatore ha sancito che, a talune condizioni (di cui si discorrerà brevemente in seguito),la coltivazione della cannabis sativa L non è sussumibile nell’alveo del dpr 309/90 ("testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza."). Orbene, tralasciando gli aspetti che non rilevano in questa sede, è doveroso precisare che l’art. 3 della L. 242/2016 pone a carico del coltivatore taluni obblighi ai fini della liceità della condotta di coltivazione (esempio, l’obbligo di conservare i cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi). Tra l’altro, in ossequio a quanto chiarito dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali nella circolare n. 70/29018, la liceità della coltivazione della “cannabis light” è subordinata alla condizione secondo cui il THC ivi contenuto, relazionato al peso, non sia superiore allo 0,2 % (così come previsto dal Regolamento UE 2013/1307). Tuttavia, la legge 242/2006, all’art. 4, comma 5, prevede una condizione di non punibilità per il coltivatore nelle ipotesi in cui il principio attivo ricavabile dalla sostanza sia superiore al predetto limite percentuale (0.2%) ma inferiore al 0,6 %, fermo restando il rispetto delle altre previsioni della legge. Così ricostruita sommariamente la disciplina di cui alla L. 242/2016 , sin d’ora occorre rilevare che la giurisprudenza di legittimità, all’indomani dell’entrata in vigore della legge di cui innanzi, si è schierata su fronti opposti in relazione alla liceità della commercializzazione della cannabis light e dei relativi derivati, onde ricondurre la predetta condotta nell'alveo della non punibilità di cui alla L. 242/2016, ovvero in quella di responsabilità penale di cui all'art. 73 del D.PR. 309/90. Secondo un primo indirizzo, la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana) rimane illecita e, dunque, sottoposta alla disciplina di cui al DPR 309/90. A pregio di quanto detto v’è la circostanza secondo cui la L. 242/2016 si riferisce esclusivamente alla condotta di coltivazione di cannabis sativa L, la quale, tra l'altro, è ammessa esclusivamente per le finalità indicate all'art. 1, comma 3 della stessa legge, dal novero delle quali esula il commercio dei suoi derivati (Cass., n. 56737/2018). Secondo un diverso orientamento, invece, dalla liceità della coltivazione della cannabis light sancita nella l. 242/2016 deriverebbe la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%. Di talché, sarebbero immuni alla disciplina di cui al d. P. R. n. 309/1990, giacché ritenute non offensive, tutte quelle condotte consistenti nella commercializzazione di prodotti contenenti principio attivo entro i limiti dello 0,6 % (Cass. n. 4920/2018). Il contrasto interpretativo è stato composto dal recente arresto giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione. Difatti, nel luglio 2019, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono ritornate sul rapporto fra la disciplina della canapa light e il principio di offensività. Nel dettaglio, è stato richiesto alla Suprema Corte se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 1 c.II e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa, rientrino o meno, e in quali limiti, nell'applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa. Le Sezioni Unite, dopo una lunga analisi della norma, hanno statuito che: «la commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73, D.P.R. n. 309/1990, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività». E' evidente, dunque, che le Sezioni Unite hanno statuito che- in linea di massima- la coltivazioni di cannabis light integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73 c.I e IV T.U. stupefacenti, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicata dall’art. 4, c. V e VII, della legge del 2016. Tale assunto in quanto l’art. 73 incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla cannabis senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente. Tuttavia, occorre altresì precisare che, nella pronuncia de qua, la Corte pone l’attenzione al principio di concreta offensività della condotta, che, nel caso concreto, si sostanzia nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione. Difatti, osservano le Sezioni Unite che ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore. Pertanto, alla luce delle su esposte argomentazioni, in ogni caso, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tale indagine risulta altresì ancillare ai fini dell'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 131 bis c.p. in relazione alle condotte di commercializzazione di canapa light ritenute penalmente rilevanti.

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