LA MASSIMA
“In tema di rapporti tra ordinamenti giurisdizionali, il cittadino soggetto anche alla giurisdizione ecclesiastica della Santa Sede, giudicato in sede canonica per un reato commesso nel territorio nazionale, può essere sottoposto a giudizio in Italia per lo stesso fatto, non sussistendo la violazione del principio del ne bis in idem, non applicabile nei casi di duplice procedimento in due Stati diversi”
IL CASO
Il ricorrente, condannato in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 609quater, n. 2 c.p. per aver posto in essere atti sessuali nei confronti di minore di anni sedici affidatogli per ragioni di educazione religiosa, proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione deducendo i seguenti motivi.
In primis, eccepiva la violazione del principio del ne bis in idem, e segnatamente l’inosservanza degli artt. 11 c.p., 649 c.p.p., essendo l’imputato già stato giudicato per i medesimi fatti, sanzionati ex art. 6, § 1, co. 1 delle Nuove norme “De Gravioribus Delictis” (che ha ampliato l’originaria fattispecie prevista dal can. 1395, § 2 del Codice di diritto Canonico) e condannato alla pena del divieto di esercizio del ministero sacerdotale in perpetuo con minori di età e alla pena temporanea inerente sia la sfera sacerdotale (pena della sospensione del ministero sacerdotale per un termine di tre anni), che quella della privazione della libertà personale (obbligo di dimora per un periodo di cinque anni presso una struttura residenziale).
Con il secondo motivo, deduceva, sempre con riferimento al ne bis in idem, la violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU, dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dell’art. 54 dell’accordo di Schengen e di ulteriori convenzioni internazionali.
Con un terzo motivo, lamentava la violazione dell’art. 23 del Trattato tra Santa Sede e Italia del 1929, laddove la sentenza aveva ritenuto che tale norma facesse riferimento alle sole sentenze emanate da Tribunali della Città del Vaticano e non anche a un decreto emesso da un delegato nominato dal vescovo diocesano, come nel caso in esame. In particolare, non si sarebbe considerato che la natura penale della decisione ostativa di nuova azione penale deriverebbe da un procedimento in cui vi sia identità sostanziale dell'illecito contestato dai sistemi giuridici concorrenti, nonché dal grado di severità della pena attinente alle privazioni della libertà personale, rimanendo del tutto irrilevante la differenza tra una sentenza e un decreto e tra l'organo giudiziario ecclesiale centrale e periferico.
Con ulteriori motivi, il ricorrente proponeva una diversa ricostruzione del materiale probatorio, ritenuta inammissibile in sede di giudizio di legittimità.
LA QUESTIONE
La questione oggetto della presente pronuncia attiene alla possibilità che un cittadino italiano, soggetto anche alla giurisdizione ecclesiastica e giudicato in sede canonica per un reato commesso nel territorio nazionale, possa essere sottoposto a nuovo giudizio in Italia per lo stesso fatto.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo infondati i motivi di doglianza.
In primo luogo, la Corte precisa come il decreto di condanna adottato nei confronti del ricorrente da parte dell’autorità ecclesiastica sia il risultato di un processo penale extragiudiziale (denominato anche “processo penale amministrativo” e caratterizzato da minori formalità al fine di accelerare i tempi di svolgimento, affidato al Vescovo), non riconducibile nel novero dei provvedimenti adottati dai Tribunali dello Stato della Città del Vaticano, entità distinta rispetto alla Santa Sede. Inoltre, alle pene irrogate si riconosce, anche al di là della loro denominazione formale, natura afflittiva. Ne consegue che gli ambiti giurisdizionali da porre a raffronto tra loro sono costituiti, da un lato, dalla giurisdizione canonica, cui il chierico è assoggettato in ragione del suo status clericale, e, dall’altro, dalla giurisdizione statuale italiana, cui invece è assoggettato in ragione del suo status civitatis.
Dunque, la decisione dei tribunali canonici, in generale considerati, rappresenta l’esercizio di poteri giurisdizionali aventi dimensione esterna allo Stato italiano, assimilabile a quelli di altre autorità statuali con la conseguente questione circa l’operabilità del principio di ne bis in idem internazionale.
Poste tali premesse, tuttavia, la Corte, esclude la violazione del ne bis in idem, negando che tale principio abbia natura di principio generale del diritto internazionale, capace di prevalere sul principio di territorialità degli artt. 6 e 11 c.p., e potendo, invece, lo stesso trovare applicazione solo in presenza di convenzioni, ratificate e rese esecutive tra Stati, non presenti nel caso in esame.
La Corte, infatti, sottolinea come non sussistano accordi specifici intervenuti tra le due parti, e che la Santa Sede non ha aderito a convenzioni di cui sia parte anche l’Italia che abbiano disciplinato, in deroga all’art. 11 c.p., il principio del ne bis in idem. La Santa Sede non ha aderito alla Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, né all’Unione Europea, con conseguente inapplicabilità sia dell’art. 54 dell’accordo di Schengen che della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea. Infine, non appare invocabile nemmeno il principio del ne bis in idem regolato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU; detto principio, infatti, ha rilevanza all’interno del singolo Stato, ma non è applicabile nei casi di duplice procedimento nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto in due Stati diversi, come confermato dalla stessa giurisprudenza della Corte EDU.
Segnalazione a cura di Giulia Tavella
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