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Diritto Penale

MILLANTATO CREDITO - Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 7 febbraio 2020, n. 5221

MASSIMA "Preponderante risulta, al fine di negare continuità normativa a condotte in precedenza ricomprese nel secondo comma e pur in presenza di una esplicitata intenzione del legislatore di una «abrogatio sine abolitione», la non esatta corrispondenza tra la condotta in precedenza prevista dalla norma abrogata e quella attualmente inglobata nel primo comma dell'art. 346-bis cod. pen., nella parte in cui è stato riprodotto il sintagma: «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'art. 322-bis cod. pen., indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri, denaro o altra utilità (...) per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sui funzioni o dei suoi poteri». La mancata riproposizione del termine "pretesto" contenuto nella precedente ipotesi di reato o altro di natura equipollente, che come sopra osservato, fondava il carattere autonomo della fattispecie di reato di cui all'art. 346, comma secondo, cod. pen. - inserendo la stessa in una storicamente riconosciuta particolare ipotesi di truffa, tanto da ritenersi l'assorbimento della fattispecie di cui all'art. 640 cod. pen. quando nessuna relazione tra millantatore ed il pubblico ufficiale o impiegato sussisteva - fa ritenere che non vi sia identità tra la norma abrogata e quella oggi prevista dall'art. 346-bis cod. pen. per come modificata dalla I. 9 gennaio 2019, n 3”.

IL CASO La Corte di Cassazione, con la sentenza in epigrafe, chiarisce che la continuità normativa tra il reato di millantato credito e quello di traffico di influenze illecite sussiste solo con riferimento all’ipotesi originariamente prevista dall’art. 346, comma 1 c.p. mentre deve escludersi con riguardo alla fattispecie in precedenza sanzionata dall’art. 346, comma 2 c.p. La pronuncia in esame prende le mosse da un ricorso dell’imputato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino che, previa riqualificazione di alcuni capi di imputazione ex art. 346, comma 1 e 2 c.p. nel reato di traffico di influenze illecite, lo ha condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. Nel caso di specie, il ricorrente avrebbe millantato crediti nei confronti di alcuni pubblici ufficiali e funzionari in servizi presso diversi enti. In questo modo, lo stesso ha indotto le persone offese a farsi consegnare somme di denaro, in alcuni casi come prezzo della propria mediazione, in altri casi inducendo le vittime a credere che le somme di denaro venissero versate direttamente ai pubblici ufficiali.

LA QUESTIONE Il ricorso proposto dalla difesa è articolato su un unico motivo di doglianza: l’assenza di continuità normativa tra il reato abrogato di cui all’art. 346 c.p. e il nuovo reato previsto dall’art. 346-bis c.p.

LA SOLUZIONE Nell’accogliere parzialmente la censura proposta dalla difesa, la Suprema Corte afferma la continuità normativa tra il reato di millantato credito e quello di traffico di influenze illecite, con riferimento alla sola ipotesi in precedenza prevista dall’art. 346, comma 1 c.p. In particolare, la Corte ribadisce che le condotte consistite nel vantare influenze effettive o meramente asserite nei confronti di un pubblico ufficiale o incaricato al pubblico servizio al fine di farsi dare o promettere denaro o altra utilità quale prezzo della propria mediazione, precedentemente sanzionate ex art. 346, comma 1 c.p., risultano ora punite ai sensi dell’art. 346-bis c.p. Di contro, deve escludersi la continuità normativa tra il reato di cui all’art. 346, comma 2 c.p. e quello di cui all’art. 346-bis c.p. La fattispecie punita ai sensi del secondo comma dell’art. 346 c.p., infatti, si realizza attraverso artifici e raggiri per mezzo dei quali si induce la vittima a credere che la somma di denaro o altra utilità dovrà essere corrisposta direttamente al pubblico ufficiale o incaricato al pubblico servizio quale prezzo per l’attività posta in essere. Per tale ragione, secondo la Corte, l’ipotesi criminosa in esame configura un’autonoma fattispecie rispetto a quella prevista dall’art. 346, comma 1 c.p., mutuata sullo schema del reato di truffa. In altre parole, la distinzione tra il primo e il secondo comma dell’art. 346 c.p. risiede sulla funzione attribuita alla soma di denaro o altra utilità versato dalla vittima: con riferimento all’art. 346, comma 1 c.p., la controprestazione viene versata come prezzo per l’intermediazione del millantatore; nel caso dell’art. 346, comma 2 c.p., il prezzo si assume essere destinato direttamente al pubblico ufficiale o incaricato al pubblico servizio quale controprestazione per il favore ricevuto. In tale assunzione si coglie la condotta truffaldina posta in essere dal millantatore il quale, con artifici e raggiri, crea una falsa rappresentazione della realtà inducendo la vittima a credere che la richiesta decettiva sia destinata a soddisfare direttamente le richieste del pubblico ufficiale o incaricato al pubblico servizio con cui il millantatore ha un rapporto puramente ipotetico. L’esclusione della continuità normativa tra il reato di cui all’art. 346, comma 2 c.p. e 346-bis c.p. si giustifica alla luce di tre principali argomentazioni. In primo luogo, la stessa trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità prevalente la quale ha sempre negato il concorso formale tra il reato di truffa e quello di cui all’art. 346, comma 2 c.p., ritenendo piuttosto che le condotte truffaldine con cui si induce la vittima a cedere una somma di denaro o altra utilità debbano essere assorbite nella fattispecie di millantato credito. In secondo luogo, la Suprema Corte osserva come la previsione di una punizione con identifica pena (da un anno a quattro anni e sei mesi di reclusione) rende inconciliabile la sanzione del reato di truffa con quella prevista ex art. 346-bis, comma 2 c.p. In questo modo, nonostante le dichiarazioni d’intenti del Legislatore, deve escludersi che l’introduzione del nuovo reato di traffico di influenze illecite costituisca una “abrogatio sine abolitione”, almeno con riferimento all’art. 346, comma 2 c.p. Nonostante la validità delle suesposte argomentazioni, preponderante al fine di negare la continuità normativa tra l’art. 346, comma 2 c.p. e la nuova fattispecie normativa è la non esatta corrispondenza tra le due previsioni normative. Segnatamente, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che la mancata riproposizione del termine “pretesto” nella nuova formulazione “sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, (…)per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri” - considerato indice della natura autonoma, quale particolare ipotesi di truffa, della fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 346 c.p. – esclude definitivamente la continuità normativa tra le norme in esame. Sulla scorta di tali argomentazioni e considerazioni, se per un verso si ribadisce la continuità normativa tra il reato in origine previsto dall’art. 346, comma 1 c.p. e il nuovo art. 346-bis c.p., dall’altro si nega la medesima continuità tra l’art. 346, comma 2 c.p. e l’art. 346-bis c.p. In conclusione, appurato che le condotte originariamente previste ex art. 346, comma 2 c.p. sono sussumibili, a seguito dell’abrogazione della suddetta norma, nell’art. 640, comma 1 c.p., la Corte annulla parzialmente la sentenza della Corte d’Appello di Torino, riqualificando alcuni capi di imputazione nel delitto di truffa semplice.

Segnalazione a cura di Vincenzo Minunno





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