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Diritto Penale

MERITO E DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA NEL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO

PRIMA TRACCIA 2020-2021


SVOLGIMENTO a cura di Veronica Proietti


Il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p., oggetto di diverse riforme a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, è stato, da ultimo, nuovamente modificato dal recente D.l. n. 76 del 2020, c.d. Decreto Semplificazioni. Obiettivi del decreto, disgiunti ma strettamente connessi, sono, da un lato, quello di alleggerire la responsabilità dei pubblici dipendenti e dall’altro, quello di evitare l’inerzia della pubblica amministrazione, sfociante spesso nella c.d. “burocrazia difensiva”.

Al fine di individuare l’incidenza della più recente riforma sulla struttura del reato, soprattutto sotto il profilo dell’ampiezza dei confini del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa e sugli atti adottati dai pubblici funzionari, è opportuno prendere le mosse da una breve analisi della fattispecie.

Si tratta di un reato proprio, realizzabile esclusivamente dai pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio nello svolgimento delle funzioni o del servizio, volto a tutelare, secondo alcuni, solo il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e, secondo altri, anche il patrimonio del terzo eventualmente danneggiato.

L’elemento soggettivo, desumibile dall’utilizzo dell’avverbio “intenzionalmente”, è il dolo intenzionale: il momento rappresentativo deve corrispondere perfettamente al momento volitivo, con esclusione, quindi, della configurabilità del reato in ipotesi di dolo eventuale.

Nella formulazione antecedente al D.l. n. 76 del 2020, la norma di cui all’art. 323 c.p. sanciva la rilevanza penale di due differenti condotte: da un lato la violazione di norme di legge o regolamento e, dall’altro, la violazione dell’obbligo di astensione del pubblico funzionario in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.

Il legislatore del 2020, presupponendo la scarsa determinatezza e precisione della norma, è intervenuto su tre fronti: in primo luogo, definendo in maniera più specifica la condotta di violazione di norme di legge; in secondo luogo, espungendo dalla fattispecie il riferimento alle norme regolamentari; in terzo luogo, introducendo il concetto di “atti aventi forza di legge”.

Con particolare riferimento alla ridefinizione della condotta di violazione di legge, il D.L n. 76 del 2020 ha modificato la precedente formulazione dell’art. 323 c.p., che stigmatizzava la condotta di “violazione di norme di legge o regolamento”, sancendo la rilevanza penale della “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

L’intervento del legislatore introduce una parziale “abolitio criminis” con riferimento a quelle condotte, poste in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, che violino norme di legge che lasciano al funzionario un margine di discrezionalità o norme regolamentari e che, prima della novella, erano penalmente rilevanti.

Alla luce della riforma, è necessario delimitare esattamente il perimetro della discrezionalità amministrativa, che racchiude i comportamenti esclusi dall’area di applicazione della fattispecie incriminatrice. In altri termini, occorre chiarire quali vicende concrete risultino “coperte” dalla parziale “abolitio criminis” dell’abuso d’ufficio.

In ambito amministrativistico, quando la pubblica amministrazione gode di un margine di scelta tra diverse alternative, la sua attività è detta discrezionale. La scelta tra le diverse opzioni possibili implica valutazioni di merito, di opportunità, che solo l’amministrazione è in grado di compiere nella sua veste di “custode” dell’interesse pubblico. Può, dunque, definirsi merito lo spazio in cui, nell’ambito del procedimento amministrativo, è lasciata alla pubblica amministrazione la valutazione circa l’opportunità e convenienza della scelta finale, rispetto non solo all’interesse pubblico primario attribuito direttamente alla sua cura, ma anche agli interessi secondari che vengono eventualmente in rilievo.

A differenza dell’attività del privato, il cui agire è libero nei mezzi e nei fini, l’attività della pubblica amministrazione, anche se discrezionale, non è mai libera nei fini, ma sempre funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico e confinata entro limiti legislativamente predeterminati.

Le diverse opzioni tra le quali la pubblica amministrazione può effettuare la scelta sono racchiuse all’interno di un perimetro disegnato dalla legge, oltre il quale si estende la vasta area dei vizi di eccesso di potere. Il sindacato del giudice deve arrestarsi sull’orlo di quel perimetro perché il giudicante non può sostituirsi alla pubblica amministrazione nell’effettuare una scelta di opportunità che spetta solo a quest’ultima. Il merito amministrativo, infatti, costituisce un aspetto del potere riservato all’amministrazione, perché relativo alla cura dell’interesse pubblico.

In questo quadro, occorre domandarsi quale sia la rilevanza, nell’economia della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., del vizio di eccesso di potere, in particolare nella sua manifestazione più tipica di sviamento di potere e se rilevi, altresì, la violazione dell’art. 97 Cost.

Con riguardo alla riconducibilità dell’eccesso di potere nel fatto tipico dell’abuso d’ufficio per violazione di legge, è bene precisare che le posizioni degli interpreti apparivano divergenti anche prima dell’entrata in vigore del D.l. n. 76 del 2020.

Secondo un primo orientamento il riferimento legislativo alla violazione di legge sarebbe da intendersi in senso restrittivo: in quest’ottica la condotta del funzionario pubblico che ponga in essere un provvedimento discrezionale viziato da eccesso di potere sarebbe penalmente irrilevante, in ossequio al principio di separazione dei poteri che impedisce al giudice di sindacare le scelte di opportunità compiute dall’amministrazione.

Quanto all’art. 97, Cost., i fautori di tale indirizzo interpretativo escludono che la stessa abbia efficacia precettiva diretta: si tratterebbe, infatti, di una norma di principio, insuscettibile di costituire un canone normativo che impone direttamente doveri e divieti in capo al pubblico funzionario.

Di diverso avviso, invece, altra tesi che ritiene integrato il requisito della violazione di legge non solo quando il funzionario pubblico abbia assunto una condotta contrastante con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando il comportamento appaia orientato alla sola realizzazione di un interesse divergente rispetto a quello per il quale il potere è stato attribuito alla pubblica amministrazione. In questa ipotesi, il vizio di sviamento di potere integrerebbe la violazione di legge in quanto il potere, pur previsto legislativamente, non viene esercitato secondo lo schema normativo di riferimento. A sostegno di tale tesi si richiama proprio l’art. 97, comma 2, Cost. a mente del quale i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Il canone dell’imparzialità assume, dunque, rilevanza come parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio in quanto, secondo questa interpretazione, esso impone all’agente una vera e propria regola di comportamento di immediata applicazione, vietando favoritismi e trattamenti differenziati rispetto a situazioni identiche.

A favore dell’orientamento estensivo si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, nel 2011, che hanno ricondotto nell’alveo della violazione di legge non solo le ipotesi in cui la condotta del funzionario pubblico violi le norme che regolano l’esercizio del potere, sotto il profilo della disciplina, ma anche tutti i casi in cui il pubblico ufficiale o l’incarico di pubblico servizio esercitino il potere per il soddisfacimento di un interesse diverso e collidente con quello a cui è funzionalizzata l’attribuzione del potere.

I principi espressi dalle Sezioni Unite del 2011 sono stati recepiti dalla prevalente giurisprudenza successiva che ha ritenuto penalmente rilevanti molteplici condotte di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio integranti il vizio di eccesso di potere, nella sua manifestazione più tipica di sviamento di potere.

Rispetto a tali fattispecie concrete, pare dunque che la novella del 2020 abbia introdotto una vera e propria “abolitio criminis” parziale. Il vizio di eccesso di potere, infatti, è predicabile solo con riferimento all’attività discrezionale della pubblica amministrazione, atteso che, a fronte di attività vincolata, qualsiasi scostamento dell’azione amministrativa rispetto al modello legale si risolve in violazione di legge, non essendovi alcun margine di scelta tra diverse opzioni. Poiché il D.l. n. 76 del 2020 ha espressamente sottratto al sindacato del giudice penale l’attività amministrativa discrezionale, deve ritenersi che alcune vicende in precedenza integranti il vizio di eccesso di potere ricondotte nell’alveo della violazione di legge, non potranno più essere sussunte sotto l’abuso d’ufficio.

Il D.l. n. 76 del 2020 avrebbe, in sostanza, l’effetto di restringere fortemente il campo di operatività dell’art. 323 c.p.: tale fattispecie, infatti, continuerebbe a trovare applicazione soltanto rispetto all’esercizio di attività vincolata, in casi marginali e, paradossalmente, connotati da minor gravità e offensività.

In applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p., l’”abolitio criminis” parziale dovrebbe determinare il travolgimento delle sentenze di condanna, anche passate in giudicate, relative ai fatti di abuso d’ufficio implicanti sviamento di potere, violazione dell’art. 97, Cost. o di norme regolamentari, nonché la cessazione degli effetti penali della condanna.

L’art. 673, c.p.p. prevede, a tal proposito, che sia il giudice dell’esecuzione a revocare la sentenza, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Senonché, a ben guardare, l’effetto della riforma potrebbe non essere così dirompente.

In primo luogo, non pare possa escludersi il sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa caratterizzata dall’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica. Quest’ultima, per costante orientamento giurisprudenziale, non è neppure qualificabile in termini di discrezionalità in senso stretto. Essa viene in considerazione quando la pubblica amministrazione, nell’esercizio del potere, è tenuta ad applicare norme che contengono concetti tecnici riferibili ad ambiti extragiuridici.

La discrezionalità tecnica, in altri termini, si riferisce ai casi in cui l’esame di fatti e situazioni, che costituiscono presupposti per poter proseguire l’attività amministrativa, deve essere effettuato mediante il ricorso a cognizioni tecniche e scientifiche di carattere specialistico.

A differenza della discrezionalità amministrativa “pura”, la discrezionalità tecnica non ha lo scopo di comparare l’interesse da curare con altri interessi presenti nella fattispecie, ma si risolve in un giudizio tecnico necessario per l’individuazione della materialità di un fatto. Si parla di discrezionalità perché, ad eccezione delle ipotesi in cui la valutazione tecnica avviene sulla base di scienze esatte e non opinabili, nella maggior parte dei casi è necessario fare applicazione di regole non univoche. Esse pongono l’amministrazione di fronte a una molteplicità di opzioni tutte valide ma tutte opinabili.

Si tratta di valutazioni che, nei casi in cui si devono applicare norme tecniche non oggettive, possono al più essere opinabili, ma mai inopportune. L’opportunità, infatti, è una qualificazione riferibile esclusivamente alle scelte amministrative che coinvolgono il profilo della finalizzazione dell’agire amministrativo alla cura dell’interesse pubblico e della comparazione tra quest’ultimo e gli altri interessi secondari in gioco.

In secondo luogo, la giurisprudenza potrebbe ricondurre le ipotesi di eccesso di potere nello svolgimento di attività discrezionale e di violazioni di norme regolamentari, nell’ambito della seconda condotta tipica prevista dalla norma, non toccata dalla riforma, ossia nella violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, tale fattispecie opera a prescindere dalla violazione di specifica norma di legge in quanto introduce un generale dovere di astensione per i funzionari pubblici che si trovano in una situazione di conflitto di interessi. Ciò implica che, ogniqualvolta il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto, la sua condotta assume rilevanza penale anche in assenza di una specifica disciplina che espressamente impone l’astensione.

Da ultimo, ponendo mente all’evoluzione del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità amministrativa, anch’esso influenzato dal dogma della separazione dei poteri, si può notare che l’ambito del merito insindacabile si è andato via via restringendo.

Nel senso di restringere i confini del merito insindacabile si pone, in particolare, l’art. 1, l. n. 241 del 1990 che impone al giudice di valutare se l’azione amministrativa sia stata conforme ai criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza. Il giudice è tenuto a vagliare, oltre che la logicità e coerenza della motivazione e la corretta ricostruzione e valutazione dei fatti, anche l’imparzialità, la congruità, l’adeguatezza, la ragionevolezza e la proporzionalità dell’azione amministrativa.

I canoni suddetti, un tempo parametri alla luce dei quali valutare il vizio di eccesso di potere, sono divenuti oggi criteri normativi la cui inosservanza integra vera e propria violazione di legge.

Da un sindacato di tipo estrinseco si è, quindi, passati a un sindacato intrinseco che ha inevitabilmente ridotto l’ambito del merito insindacabile ai soli profili dell’opportunità e della convenienza della scelta effettuata dall’amministrazione.

Traslando tali conclusioni nell’ambito penale, può quindi affermarsi che, nonostante il chiaro intento del legislatore del 2020 di limitare l’ambito applicativo dell’art. 323 c.p. a poche residuali ipotesi di violazioni nell’attività vincolata dell’amministrazione, non è escluso che la giurisprudenza fornisca un’interpretazione della norma non difforme da quella già adottata in precedenza.


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