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Diritto Penale

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA - Cass.VI Sez. 23 settembre 2021, n. 35262

LA MASSIMA

“Ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persistente azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima.

Deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l'incolumità personale, la libertà o l'onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.”


IL CASO

Con pronuncia della Corte d’Appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, l’imputato veniva assolto dall’accusa di lesioni personali aggravate a danno della convivente e di violenza sessuale aggravata a danno di altra persona offesa, residuando a suo carico la sola responsabilità per il reato di maltrattamenti contro famigliari e conviventi di cui all’art 572 c.p. a danno della predetta convivente. Per tali fatti veniva condannato alla pena della reclusione di anni due e mesi sei, con revoca delle pene accessorie e la conferma nel resto della decisione oggetto di gravame.

Avverso la citata sentenza l’imputato, per il tramite del difensore, proponeva ricorso per Cassazione, dolendosi, per quanto d’interesse in questa sede, della violazione di legge e vizi della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art 572 c.p.

Segnatamente, la ricorrente difesa lamentava un’inadeguata valutazione, da parte della Corte d’Appello, delle risultanze istruttorie nella parte in cui esse davano conto di una condotta dell’imputato risoltasi in episodi aggressivi sporadici e di lieve entità, schiaffi in due o tre occasioni, e animata unicamente da un dolo d’impeto.


LA QUESTIONE

Con la pronuncia in esame, la VI sezione della Corte di Cassazione è chiamata a tracciare i confini dell’ambito di operatività del delitto di maltrattamenti contro famigliari e conviventi ex art 572 c.p.

In particolare, la Suprema Corte delinea le caratteristiche necessarie a che la condotta dell’agente possa dirsi lesiva del bene giuridico tutelato dalla norma in esame, consistente nell’integrità psico-fisica, nella libertà e nel decoro dell’individuo all’interno del contesto familiare e para familiare.

Invero, la giurisprudenza di legittimità appare costante nel ribadire l’esigenza che, ai fini della configurabilità della fattispecie, il modus operandi dell’offensore si risolva in una ripetuta serie di atti determinanti la sofferenza fisica o morale della vittima.

Alla luce di tali considerazioni, la VI sezione si sofferma sulla compatibilità della vicenda storico fattuale, così come ricostruita dalla sentenza impugnata, con i profili costitutivi del suddetto reato.


LA SOLUZIONE

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, ripercorrendo, in primo luogo, l’iter logico giuridico seguito dalla Corte d’Appello nel vaglio delle dichiarazioni della persona offesa. Orbene, pur essendo state le stesse ritenute attendibili in relazione al reato di lesioni personali aggravate, con conseguente assoluzione dell’imputato, analoghe considerazioni non sono state poste dal giudice del gravame con riferimento alla fattispecie di cui all’art 572 c.p.

Invero, sottolinea la Suprema Corte, la responsabilità dell’odierno ricorrente in ordine al predetto reato si regge principalmente sulle dichiarazioni accusatorie di altro teste. Tuttavia, in maniera contradditoria, per un verso la Corte d’Appello sembra alludere alla scarsa credibilità delle stesse, per altro verso ne conforta l’attendibilità alla luce di altre deposizioni, che riferiscono solo di schiaffi dati in sporadiche occasioni dall’imputato alla convivente.

In secondo luogo i giudici di legittimità, nel ritenere fondate le censure mosse dal ricorrente, fanno leva sulla omessa valorizzazione, da parte della sentenza impugnata, della deposizione della persona offesa, dal cui contenuto emerge una condotta dell’imputato che poco si attaglia ai profili costitutivi del delitto in esame.

Infatti, la compagna del ricorrente negava di essere stata vittima di insulti o di atteggiamenti violenti, riferendo solo di reciproci dispetti e litigi di coppia. Ancora, la stessa non lamentava una condizione di timore e di inferiorità piscologica verso l’imputato.

Alla luce delle esposte premesse, la Suprema Corte esclude che possano dirsi integrati gli estremi del delitto di cui all’art 572 c.p.

Difatti, la menzionata fattispecie rappresenta un paradigmatico esempio di reato abituale che, in quanto tale, evoca la necessità di un ripetersi prolungato nel tempo di una pluralità di atti lesivi. In particolare, occorre che l’agente infligga reiteratamente sofferenze fisiche o morali in danno del soggetto passivo, mosso dalla volontà e dalla coscienza di sottoporlo ad un regime di vita persecutorio e umiliante. Ne consegue un’alterazione dell’equilibrio endofamiliare, tale per cui la vittima arrivi a ritenere insostenibile e avvilente la convivenza con l’offensore.

A parere della Corte, la condotta dell’imputato non si è tradotta in quella persistente azione vessatoria necessaria ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, apparendo tutt’al più la manifestazione di un’aggressività occasionale. Pertanto, il carattere episodico degli atti lesivi, nonché, al contempo, l’assenza nella persona offesa di uno stato psicologico di sopraffazione o vulnerabilità, impediscono di identificare nel caso di specie gli elementi costitutivi del reato.


Segnalazione a cura di Maria Teresa del Rosso






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