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Diritto Penale

MAFIA CAPITALE - METODO MAFIOSO - Corte Cass,sez. VI Penale, sentenza del 12 giugno 2020, n. 18125

LE MASSIME

"Ai fini della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso, non può essere accertata la mera potenzialità, per quanto seria, di un futuro uso del metodo mafioso, dovendosi verificare in concreto la sua effettiva incidenza nell'ambito di operatività del sodalizio".

"Anche nel caso di organizzazioni criminali che costituiscono una articolazione territoriale di associazioni mafiose tradizionali, in quanto legate da un rapporto di dipendenza da esse [...], ai fini della configurabilità del reato non è sufficiente la sola prova dell'essere cellula di una associazione tradizionale, ma è necessario anche in tal caso che l'articolazione manifesti sul nuovo territorio la propria capacità di intimidazione e che da essa derivi assoggettamento mafioso. Anche per le c.d. nuove mafie, è necessario che il gruppo manifesti la propria capacità di intimidazione [...] e che da detta capacità produca assoggettamento omertoso."


IL CASO

La Corte d'Appello di Roma ha riformato la pronuncia con la quale il Tribunale Capitolino, escludendo la matrice mafiosa degli stessi, aveva ravvisato l'esistenza di due distinti sodalizi criminali. Le associazioni erano dedite, in un caso, a reati comuni di matrice estorsivo - usuraia, e nell'altro a delitti contro la pubblica amministrazione, di tipo clientelare - corruttivo.

Per tali ragioni, il giudice di prime cure aveva ritenuto responsabile la gran parte dei trentadue imputati nel procedimento - noto alle cronache come "Mafia Capitale" - del delitto di cui all'art. 416 c.p., in uno con svariati reati - fine.

I giudici del gravame, confermando la responsabilità degli imputati condannati in primo grado, hanno invece ritenuto esistente un'unica associazione, attribuendovi carattere mafioso e riconoscendo, di tal guisa, l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p., per alcuni dei reati contestati ai prevenuti.

Segnatamente, la Corte d'Appello ha considerato errata la valutazione mediante la quale il Tribunale aveva escluso il carattere mafioso del sodalizio criminale, in relazione al ristretto numero delle vittime e al limitato contesto relazionale e territoriale in cui avrebbe operato. Ha assunto, per converso, che la natura mafiosa dell'associazione de qua dovesse evincersi dal generale controllo del territorio dalla medesima esercitato, in uno con la marcata condizione di assoggettamento, intimidazione ed omertà che affliggeva la collettività.

Fatte salve singole e specifiche doglianze di natura procedurale, nonché le questioni inerenti le statuizioni civili, tutti gli imputati hanno proposto appello avverso la sentenza, censurandone la parte in cui era stata affermata la sussistenza dell'associazione mafiosa, muovendo da motivi sostanzialmente analoghi.

A mente degli appellanti, invero, le motivazioni offerte dalla Corte territoriale risultavano contraddittorie, carenti ed illegittime, attesa l'insufficienza delle argomentazioni dedotte a suffragio della forza intimidatrice dell'associazione, come pure della capacità della stessa di asservire la collettività.

I ricorrenti hanno eccepito, altresì, il vizio motivazionale relativo alla "fama" criminale mafiosa attribuita dal Collegio all'associazione, ribaltando, di fatto, la distinzione operata dal Tribunale di Roma, il quale aveva affermato, per converso, l'esistenza di due autonome entità criminali, sprovviste di qualsivoglia rinomanza mafiosa.


LA QUESTIONE

Con precipuo riferimento al reato associativo di stampo mafioso, la Corte è dunque chiamata a chiarire a quali condizioni sia configurabile l'aggravante ex art. 461-bis c.p. in contesti territoriali sempre più distanti da quelle che hanno storicamente ispirato l'introduzione della fattispecie criminosa in argomento.

In altri termini, il Supremo Collegio deve precisare se sia astrattamente possibile la configurabilità del reato de quo anche in realtà dissimili da quelle presi a modello dal legislatore del 1982, potendosi, per tale ragione, definire "mafioso" un sodalizio criminale che, per caratteristiche strutturali e modus operandi, sia in grado di sprigionare una carica offensiva equiparabile a quella caratterizzante i contesti storicamente noti.


LA SOLUZIONE

La Corte ha ritenuto fondate le predette doglianze spiegate dagli appellanti.

A tale determinazione giunge all'esito di un lineare percorso logico - argomentativo, muovendo da una premessa di tipo metodologico, soffermandosi sulla previa ricostruzione della "nuova" tipicità dell'art. 416 bis c.p., ben diversa da quella "basica" prevista dall'art. 416 c.p., e terminando con la meticolosa descrizione dei vizi di legittimità della decisione assunta dai giudici del gravame.

Nella premessa introduttiva, il Collegio si premura di evidenziare il criterio distintivo mediante il quale deve essere condotto il giudizio sulla caratura mafiosa o meno dei gruppi criminali implicati nel sistema corruttivo di "mafia capitale".

All'uopo, ben si chiarisce che, diversamente dall'art. 416 c.p., che rappresenta una fattispecie associativa pura, per l'integrazione del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. non è sufficiente la mera intenzione della futura commissione di delitti attraverso una stabile organizzazione di mezzi e di persone, bensì il concreto innesco di una serie di effettive derivazioni causali tra la condotta di avvalimento della forza intimidatrice e l'omertà diffusa nella cerchia di persone che con il sodalizio si relazionano.

Per la Suprema Corte, dunque, il metodo mafioso costituisce un elemento costitutivo, caratterizzante in termini di disvalore amplificato la fattispecie associativa di tipo mafioso, non obliterabile dalla giurisprudenza, pena una violazione dei principi costituzionali di materialità e tassatività, di cui all'art. 25 Cost.

Dopo aver preliminarmente individuato nel metodo mafioso il vero ubi consistam del delitto di associazione mafiosa, il Collegio precisa che, ai fini della sua concretizzazione, non è sempre richiesto il compimento di atti integranti gli estremi di violenza o minaccia, almeno nella forma tentata, quale riflesso empirico del suo impiego.

La Corte ribadisce, invero che, nel contesto mafioso, la forza intimidatrice rappresenta un requisito di tipicità "a forma libera", declinabile in modi eterogenei a seconda della sotto - tipologia associativa considerata, e non anche predeterminabili ex ante dal legislatore.

Pertanto, non basta ad integrare la fattispecie di cui all'art. 416-bis c.p. la mera riproduzione - all'interno del sodalizio - di regole, strutture e ripartizioni gerarchiche dei ruoli, analoghe a quelle dei gruppi mafiosi storici, essendo imprescindibile l'esteriorizzazione in concreto della capacità di intimidazione all'esterno e la connessa produzione di un assoggettamento omertoso diffuso.

Dopo aver puntualmente ricostruito la struttura normativa del delitto di associazione di tipo mafioso e delineato i suoi indefettibili elementi costitutivi, la Corte pone l'attenzione sulla decisione dei giudici del gravame, sottolineando come gli stessi non abbiano, per un verso, correttamente applicato i richiamati principi e, per altro, siano incorsi in un errore di fatto nella valutazione unitaria e non differenziata dei gruppi criminali implicati nelle vicende giudiziarie Capitoline.

A riguardo, rileva la Cassazione che la Corte d'Appello di Roma non ha proceduto ad una puntuale contestazione della decisione di primo grado, confutandone gli elementi fattuali sulla quale fondava, ma si è limitata a recuperare - appiattendocisi - il ragionamento già adottato dallo stesso Supremo Collegio in fase cautelare, e con il quale era stata temporaneamente confermata l'impostazione mafiosa sostenuta dall'accusa, sulla scorta, tuttavia, di fatti rivelatesi di gran lunga differenti all'esito del giudizio di merito.

Per i giudici di legittimità risulta, dunque, del tutto inadeguata la motivazione di secondo grado nella parte in cui ravvisa nuovamente un'unica associazione di tipo mafioso, piuttosto che due distinte associazioni per delinquere comuni, prive di un organico e permanente collegamento tra loro, e dedite alla commissione di specifiche tipologie delittuose senza esternazione di una propria forza intimidatrice.

Proseguendo nella disamina delle fallacie rinvenute nella gravata motivazione, la Suprema Corte si sofferma, in modo dettagliato, sul cruciale versante del metodo mafioso.

In primis, osserva come la Corte territoriale abbia ricavato inferenzialmente la sussistenza del metodo mafioso tramite l'isolato apprezzamento della caratura criminale di un singolo partecipe (il C.), piuttosto che dell'intero sodalizio, senza neppure integrarlo con il complementare riscontro dell'effettivo assoggettamento omertoso dell'area geografica presso la quale il medesimo operava.

In secondo luogo, rileva come la prova dello stesso sia stata desunta tramite un'impropria sovrapposizione con il metodo corruttivo, che ha caratterizzato la vicenda di "mafia capitale" sul versante dell'infiltrazione degli appalti pubblici. In dettaglio, rileva la Corte che il sistema degli appalti nel Comune di Roma era gestito, piuttosto che tramite il metus promanante dal vincolo associativo, tramite un oleato sistema di pratiche corruttive.

Infine, si pone in evidenza che l'illogicità della motivazione circa la sussistenza del metodo mafioso è ulteriormente suffragata dalla circostanza in guisa della quale nessuna forza intimidatrice risulti essere stata esplicitata neanche nei confronti degli imprenditori estromessi dagli appalti, atteso che la maggior parte dei medesimi accettava la logica spartitoria proposta dagli imputati, in ragione di pregressi accordi corruttivi, e non anche dell'intimidazione.

Concludendo, la Corte statuisce che le risultanze probatorie del processo non hanno consentito di affermare che sul territorio di Roma esistessero fenomeni criminali mafiosi ma che, nel caso di specie, sia stata indebitamente piegata la tipicità della fattispecie prevista dall'art. 416 - bis c.p., per farvi confluire fenomeni ad essa estranei.

Dalla decisione di annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, la Cassazione fa discendere, quale ulteriore conseguenza, l'automatico annullamento della stessa pronuncia in relazione all'applicazione a taluni reati scopo dell'aggravante soggettiva dell'agevolazione mafiosa, nonché delle aggravanti di cui agli artt. 628 e 629, co. 3, n. 3 c.p., in quanto tutte presuppongono l'effettiva previa esistenza di una associazione mafiosa.

Segnalazione a cura di Nicola Pastoressa


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