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Diritto Penale

LA RILEVANZA PENALE DEGLI STATI EMOTIVI E PASSIONALI

Gli stati emotivi e passionali, intesi come pulsioni interiori attinenti al piano dei sentimenti, sull’onda dei quali un soggetto commette un fatto criminoso, non rilevano ai fini della esclusione della imputabilità e quindi della colpevolezza, secondo quanto espressamente sancito dall’art. 90 c.p. Si tratta di un argomento attinente alla più ampia tematica della imputabilità, quale elemento costitutivo della colpevolezza, e delle sue cause di esclusione, con conseguente non punibilità dell’agente. Se infatti il reato può essere ripartito tra tipicità del fatto, antigiuridicità e colpevolezza, significa che il venir meno di uno di questi elementi comporta la non punibilità dell’agente per mancanza di un elemento indefettibile. La colpevolezza, come elemento soggettivo del reato, da un punto di vista strutturale si compone di diversi elementi: la capacità di intendere e di volere del soggetto agente (imputabilità), la coscienza e volontà della condotta (suitas), l’elemento soggettivo in senso stretto (dolo, colpa o preterintenzione). In particolare, l’imputabilità costituisce il presupposto stesso della colpevolezza. L’art. 85 c.p., individua nella “capacità di intendere e di volere” i requisiti dell’imputabilità quale prima condizione perché possa essere mosso un rimprovero al reo. Si tratta di presupposti di cui va acclarata la presenza al momento della commissione del fatto che costituisce reato. In particolare, la capacità di intendere consiste nell’attitudine del reo ad orientarsi nel mondo esterno, percependo esattamente la realtà e il significato delle proprie condotte. La capacità di volere va invece identificata nell’attitudine ad autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che sono alla base dei comportamenti dell’agente. Il venir meno di tale capacità esclude la colpevolezza. D’altronde, nessun rimprovero potrebbe essere mosso nei confronti di un soggetto che non sia in grado di percepire il disvalore della propria condotta. La riprovevolezza della condotta criminosa risiede infatti nella consapevole percezione del significato antigiuridico del proprio agire, in cui trova giustificazione la sanzione penale. Quest’ultima non potrebbe difatti assolvere alle sue finalità, retributiva e rieducativa, se comminata nei confronti di un soggetto incapace di comprendere e prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Lo stesso legislatore, enunciata la regola generale individua, tuttavia, una serie di ipotesi in cui l’imputabilità è esclusa o attenuata, come nel caso della minore età, del vizio di mente, della cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti e dal sordomutismo. Le cause di esclusione della colpevolezza, tra le quali rientrano quelle che escludono la imputabilità, sono codificate e quindi tassative, sì da poter escludere l’ammissibilità nell’ordinamento della teoria della inesigibilità quale causa ultralegale di esclusione della colpevolezza. Non avendo infatti quest’ultima alcun fondamento normativo e in mancanza di un parametro certo per la sua valutazione, risulterebbe altrimenti violato il principio di legalità. Neppure è possibile, inoltre, ricorrere all’analogia legis, posto che quando il legislatore individua una scusante, opera una scelta precisa quanto al tipo di situazione a cui ricollegare l’esigibilità di un comportamento diverso ai soggetti e alla categoria di reati in relazione ai quali essa rileva. Così ricostruito lo statuto normativo dell’imputabilità e delle cause di esclusione della stessa è possibile soffermarsi sulle ragioni che hanno spinto il legislatore a prevedere espressamente l’irrilevanza degli stati emotivi e passionali ai fini della esclusione della colpevolezza. Tale previsione normativa non è stata salutata con favore dalla dottrina, che dubita della sua concreta utilità. La tipicità delle cause di esclusione della colpevolezza porta infatti a non assegnare rilievo alle ipotesi non positivizzate. Tuttavia, dalla relazione di accompagnamento al Codice penale si rileva che la sua espressa previsione trova fondamento nell’esigenza di superare gli equivoci e gli abusi verificatisi nella pratica giudiziaria davanti alla lacuna esistente invece, sul punto, nel codice Zanardelli. L’assunto scientifico a fondamento dell’art. 90 c.p. risiede nella capacità di chi non sia afflitto da infermità fisica o psichica, di dominare le emozioni e le passioni, risultando pienamente responsabile delle azioni commesse in preda a queste utlime. Si tratta di condizioni psicologiche e non psicopatologiche e pertanto ininfluenti sulla capacità di intendere e di volere, a meno che non siano sintomatiche di patologie. Tale espressa previsione rappresenta, quindi, un monito rivolto ai consociati, affinché impongano la propria volontà razionale sugli impulsi emotivi. Emerge, dunque, l’irrilevanza degli stati emotivi e passionali ai fini della esclusione della imputabilità, a meno che questi non si tramutino in disturbi riconducibili a veri e propri vizi di mente. Il Codice penale, pur negando alle emozioni rilevanza ai fini dell’esclusione dell’imputabilità del reo, prende tuttavia le stesse in considerazione in talune ipotesi, ad esempio, nel prevedere un’attenuante per aver agito in stato di ira determinato dal fatto ingiusto altrui (art. 62 n.1, c.p.), o per aver agito sotto la suggestione di una folla in tumulto (art. 62 n.3), ovvero, nella commisurazione della pena, attribuendo rilievo ai motivi a delinquere e al carattere del reo (art. 133 c.p.). Infine, dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermarne la rilevanza nella commisurazione discrezionale della pena, anche al fine del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Pertanto gli stati emotivi e passionali non sono comunque estranei alla valutazione del giudice in quanto elementi della vicenda criminosa in grado di influire, se non sull’an della colpevolezza, sulla sua misura. La tematica della rilevanza degli stati emotivi sulla colpevolezza è stata di recente oggetto di attenzione da parte della dottrina a seguito di un recente intervento normativo, con legge n. 36 del 2019. Il legislatore, all’art. 55 c.p., ha infatti introdotto un secondo comma, attribuendo rilevanza, nei casi di eccesso colposo nella legittima difesa domiciliare, allo “stato di grave turbamento”. Il “grave turbamento” costituisce un elemento che attiene alla dimensione psicologica e dunque al piano soggettivo del fatto, in grado di operare come possibile causa di esclusione della colpevolezza. Viene pertanto in rilievo la categoria della inesigibilità, da intendersi quale situazione di conflitto motivazionale indotto da fattori esterni che, pur non inficiando la comprensione della situazione da parte del soggetto, ne condizionano in modo determinante la libertà di scelta. In questo senso, il grave turbamento influisce sulla rimproverabilità dell’eccesso in cui sia incorso il soggetto agente, lasciando tuttavia intatta la dimensione oggettiva dell’addebito colposo. Il fatto rimane tipico e antigiuridico, dando luogo a una forma di colpa non punibile. Tale innovazione risulta significativa, avendo determinato l’introduzione nell’ordinamento penale della rilevanza degli stati emotivi sulla colpevolezza. I problemi e le interferenze di questa norma si fanno complessi nel confronto con la norma di cui all’art. 90 c.p., che invece preclude in modo assoluto la rilevanza degli stati psicologici, dal momento che l’innovazione introdotta in materia di legittima difesa non incide solo in termini di graduazione del quantum della responsabilità, ma determina, in presenza di un’alterazione emotiva, l’effetto di esclusione della colpevolezza e della responsabilità penale. Ciò nonostante, a parere della dottrina, la disposizione non contraddice il principio sotteso all’art. 90 c.p. ma ne costituisce una specificazione, assegnando rilevanza a situazione anomala sul piano psicologico, in grado di alterare in maniera evidente la capacità decisionale, senza però incidere sulla imputabilità. Il “grave turbamento”, infatti, per quanto rilevante, non deve integrare il vizio di mente. Può quindi ritenersi che in relazione all’eccesso di difesa, la rigidità della disciplina di cui all’art. 90 c.p. viene stemperata, in quanto il grave turbamento che induce l’eccesso colposo costituisce uno stato di alterazione emotiva che trova origine in un’aggressione ingiusta, rispetto al cui insorgere la vittima è incolpevole. Sarebbe contraddittorio e ingiusto non considerare gli errori determinati da uno stato di scarsa lucidità di azione causato da condotte aggressive di terzi. Diversamente, infatti si finirebbe per far gravare sul soggetto aggredito anche l’ulteriore pretesa di reagire in modo composto e minuziosamente misurato, esigendo una irreale capacità di gestire la propria emotività a fronte di situazioni anormali causate ingiustamente da terzi. Tali profili esulano dal piano dell’imputabilità e non si pongono pertanto in contrasto con l’art. 90 c.p., rispetto al quale sussisterebbe comunque una relazione di genus a species.

Svolgimento a cura di Rita Tizzani


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