Svolgimento a cura di Veronica Proietti
La tematica della rilevanza penale del fatto illecito posto in essere nello svolgimento dell’attività sportiva pone la questione del corretto inquadramento del requisito della rimproverabilità soggettiva sussistente in capo all’autore e, prima ancora, della stessa antigiuridicità della condotta.
Molteplici attività sportive, per le loro modalità di svolgimento o per le circostanze nelle quali si realizza l’azione di gioco, possono comportare la verificazione, in danno di taluno dei partecipanti, di fatti lesivi causalmente riconducibili alla condotta di altri partecipanti.
In particolare, è possibile distinguere due diverse tipologie di sports: quelli a c.d. violenza necessaria, quali, ad esempio, il pugilato, in cui il contatto fisico, spesso violento e brutale, rappresenta una componente fisiologica e ineliminabile; quelli a violenza soltanto eventuale, come il calcio, in cui l’impiego della violenza, seppur non imprescindibile, è, in certi casi, ammesso.
In via preliminare, è necessario sottolineare che sia l’attività sportiva che le associazioni che la promuovono sono, in genere, guardate con favore dall’ordinamento, atteso che il fenomeno sportivo assume notevole rilevanza sociale e contribuisce in modo talvolta determinante alla crescita e allo sviluppo psico-fisico, nonché alla realizzazione della personalità di giovani e adulti, in perfetta coerenza con quanto disposto dall’art. 2, Cost.
Per tali ragioni, i fatti lesivi verificatisi in conseguenza della foga agonistica che anima i partecipanti sono, per lo più, ritenuti scriminati. Il fondamento di liceità dei danni causati nell’ambito di attività sportive a violenza necessaria o eventuale è, tuttavia, controverso.
Secondo una prima ricostruzione interpretativa, poiché la legislazione di settore consente di qualificare la pratica sportiva come attività autorizzata, la condotta lesiva dello sportivo sarebbe scriminata ai sensi dell’art. 51 Cost. In altri termini, essa rappresenterebbe una manifestazione dell’esercizio di un vero e proprio diritto allo svolgimento dell’attività sportiva, come tale non penalmente rilevante.
L’esclusione dell’antigiuridicità è subordinata, tuttavia, alla sussistenza di due condizioni. Da un lato, il consenso, implicito o esplicito, dell’offeso che, nel momento in cui decide di aderire alla competizione, volontariamente accetta la possibilità di subire lesioni derivanti dalla partecipazione; dall’altro, il rispetto, da parte dell’autore della condotta lesiva, del regolamento sportivo.
La tesi in parola ritiene, dunque, che il consenso non rappresenti autonoma causa di giustificazione, ma sia, piuttosto, una condizione necessaria per l’operatività della scriminante dell’esercizio del diritto.
La funzione del consenso sarebbe, in particolare, quella di consentire l’operare dell’art. 51 c.p. anche oltre i limiti segnati dall’art. 5, c.c.
A tale orientamento si è obiettato che esso non consentirebbe di scriminare le condotte lesive poste in essere nell’ambito di attività sportive c.d. “amatoriali”, nelle quali non esistono regolamenti che delimitino il perimetro entro il quale il consenso può giustificare il fatto.
Altro indirizzo interpretativo ritiene, invece, che il fondamento di liceità della condotta sportiva lesiva sia da ravvisare nell’art. 50, c.p. Questo orientamento, tuttavia, non sembra condivisibile, atteso che il consenso dell’avente diritto non è in grado, per l’operare dell’art. 5, c.c., di scriminare le condotte lesive che cagionino morte o danni permanenti all’integrità fisica. Occorre, inoltre, aggiungere che il consenso ha valore scriminante solo se specifico: colui che lo presta deve, infatti, sapere con precisione quali sono gli eventi lesivi a cui può andare incontro. Nella pratica sportiva, l’incertezza dello svolgimento e degli esiti delle azioni di gioco escludono, evidentemente, la sussistenza di tale condizione.
Più convincente appare la terza tesi prospettata dagli interpreti e nettamente maggioritaria in giurisprudenza, ossia quella che ritiene invocabile una scriminante non codificata.
Detta scriminante delinea un’area di rischio consentito nell’ambito della quale le condotte lesive poste in essere dallo sportivo non assumono rilevanza penale perché non antigiuridiche.
Tale area di rischio, tuttavia, avrebbe un’estensione più ampia di quella segnata dalle regole del gioco: essa, infatti, comprenderebbe anche tutte le azioni poste in essere nell’ambito della competizione che, sebbene non conformi al regolamento sportivo, rappresentino un comportamento normale dei contendenti alla luce del criterio dell’id quod plerumque accidit.
Detto altrimenti, quando la violazione della regola del gioco sia la risultante involontaria del fisiologico sviluppo di un’azione di gioco, governata dalla foga agonistica che inevitabilmente anima i partecipanti, all’autore della condotta non può essere mosso alcun rimprovero penale in quanto il fatto si inquadra comunque all’interno dell’area del rischio consentito. In tali ipotesi, nei confronti dello sportivo si può configurare un mero illecito sportivo, sanzionabile ai sensi delle disposizioni contenute nel regolamento di gioco.
Chiarito il fondamento e l’ambito applicativo della c.d. scriminante sportiva, occorre interrogarsi sulla possibile sussistenza di uno spazio residuo di rilevanza penale delle condotte lesive poste in essere nell’ambito della gara.
È certo che la violazione volontaria delle regole sportive restituisce al fatto l’antigiuridicità poiché la condotta lesiva si pone al di fuori dell’area di rischio consentito. Ciò posto è necessario chiarire se il fatto, sicuramente tipico e antigiuridico, sia anche colpevole e come si atteggi l’elemento soggettivo nelle diverse situazioni nelle quali si manifesta la condotta volontariamente violativa del regolamento sportivo.
Nello specifico, quando il partecipante pone in essere una condotta in volontaria violazione del regolamento sportivo, senza l’intenzione di ledere l’avversario, ma spinto pur sempre dalla veemenza competitiva e dallo scopo ultimo di finalizzare favorevolmente l’azione di gioco, è configurabile l’elemento soggettivo della colpa. Alla sussistenza dell’elemento normativo della colpa, costituito dalla violazione volontaria delle cautele imposte dal regolamento sportivo, si affianca, infatti, anche la prevedibilità-evitabilità dell’evento, che costituisce l’elemento psicologico-soggettivo della colpa.
Diversa è l’ipotesi in cui lo sportivo approfitti della concitazione sportiva per offendere volontariamente l’avversario al di fuori di qualsiasi finalità prettamente agonistica, ma con il precipuo intento di causare una lesione. La competizione sportiva, in questo caso, rappresenta la mera occasione nell’ambito della quale intraprendere un’azione finalizzata a cagionare l’evento lesivo per ragioni estranee alla gara o per motivi di ritorsione, reazione, rivalsa nei confronti di falli subiti in precedenza o, ancora, per intimorire l’avversario.
In questa circostanza, l’agente, non solo ha volontariamente violato il regolamento sportivo, ma si è anche rappresentato e ha voluto l’evento lesivo o ne ha volontariamente accettato il rischio di verificazione, con conseguente rimproverabilità soggettiva a titolo di dolo, anche eventuale.
Quanto detto deve peraltro essere ulteriormente precisato con riferimento all’esercizio di attività sportive ad alto tasso di carica agonistica, c.d. attività a violenza necessaria.
In queste ipotesi, infatti, la scriminante può operare soltanto se la competizione, da un lato, si sia svolta nel rispetto delle regole cautelari previste nel regolamento sportivo, con esclusione, dunque, dei c.d. “colpi proibiti”; e, dall’altro, abbia coinvolto esclusivamente atleti professionisti e/o comunque appartenenti alla medesima categoria.
Sempre in caso di attività sportiva a violenza necessaria, inoltre, la giurisprudenza ha precisato che, ove la competizione si svolga nel corso di un semplice allenamento, gli atleti sono tenuti ad adottare maggiore prudenza e cautela rispetto all’ipotesi dell’incontro sportivo vero e proprio. Nella prima ipotesi, dunque, l’area del rischio consentito parrebbe ridotta, imponendo all’atleta un più accentuato controllo della carica agonistica, il cui eccessivo dispiegarsi non è giustificato dalla finalità di vincere la gara.
Un’ulteriore riflessione deve essere effettuata sulla natura delle regole cautelari previste in ambito sportivo. Occorre domandarsi, in particolare, se debbano essere considerate regole cautelari solo quelle scritte nei regolamenti sportivi o anche quelle ricavabili dal generale dovere di prudenza e diligenza.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il rispetto dei regolamenti sportivi non è sufficiente per escludere la rilevanza penale del fatto in tutti i casi in cui alla violazione delle comuni regole di prudenza poste a tutela dell’incolumità fisica dell’avversario si unisca la prevedibilità in concreto delle conseguenze lesive in danno di quest’ultimo. In altre parole, allo sportivo è richiesto, non solo di conformare il proprio comportamento alle regole del diritto sportivo, ma anche di rispettare le comuni regole cautelari, la cui violazione dà luogo a colpa generica.
Resta, infine, da analizzare la responsabilità degli organizzatori delle manifestazioni sportive nell’ipotesi in cui, nel corso delle stesse, si verifichi una lesione in danno di uno dei partecipanti.
Pare ipotizzabile una responsabilità per omesso o insufficiente controllo, precedentemente alla gara, circa l’idoneità dell’atleta o la sussistenza dei requisiti di sicurezza degli ambienti in cui si svolge la competizione.
In tali casi la norma di riferimento è l’art. 40, cpv, c.p.: l’interprete deve, dunque, verificare se, in capo agli organizzatori dell’evento sportivo, sussistano i requisiti della colpa per omesso impedimento dell’evento lesivo, ovvero la posizione di garanzia e i corrispondenti poteri impeditivi.
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