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Diritto Penale

ILLEGITTIMITÀ PENA ACCESSORIA - RIDETERMINAZIONE - Cass. Pen., Sez. I, 27 gennaio 2020, n. 3290

MASSIMA “È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall’art. 216, ultimo comma, l. fall., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni”.


IL CASO La Corte di Appello di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione, respingeva con ordinanza l’istanza proposta al fine di ottenere la rideterminazione, nella misura minima, della durata delle pene accessorie, inflitte ai sensi dell’art. 216, ultimo comma, R.D. 16 marzo 1942 (c.d. legge fallimentare). Avverso tale ordinanza il condannato ricorreva per cassazione, censurando, quale unico motivo di ricorso, l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 133 c.p., in relazione alla commisurazione delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa. Secondo la difesa, queste avrebbero dovuto essere dichiarate estinte in forza di quanto stabilito dalla pronuncia n. 222 del 2018, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata di tali pene in misura fissa e pari a dieci anni, anziché quella variabile fino a dieci anni. La Corte d’Appello non procedeva alla rideterminazione richiesta, omettendo un’adeguata motivazione circa l’effettiva gravità dei fatti e la pericolosità sociale dell’imputato.


LA QUESTIONE La questione di diritto, sottoposta all’esame della Suprema Corte, riguarda l’ampiezza dei poteri cognitivi del giudice dell’esecuzione e la proponibilità, con il rimedio dell’incidente di esecuzione, della richiesta di rideterminazione delle pene accessorie inflitte con statuizione irrevocabile. La Corte di Cassazione, dunque, è nuovamente chiamata ad affrontare i due attuali temi della c.d. erosione del giudicato e della proporzionalità del trattamento sanzionatorio. La peculiarità del caso di specie è data dalla circostanza che esso concerne non già la pena principale, bensì quelle accessorie: più precisamente, quelle di cui all’art. 216, ultimo comma, l. fall., oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 222 del 2018. È opportuno premettere che la pronuncia del Giudice delle leggi da ultimo citata, insieme a quelle concernenti il reato di alterazione di stato (art. 567, comma 2, c.p.) e la fattispecie di cui all’art. 73, comma 1, T.U. stupefacenti, è indicativa della recente tendenza, da parte della Consulta, a operare un sindacato più intenso sulla cornice edittale, tanto delle pene principali, quanto di quelle accessorie. Il superamento del tradizionale giudizio triadico “a rime obbligate”, imperniato sul riscontro di un “tertium comparationis”, è reputato ammissibile in presenza di scelte sanzionatorie manifestamente arbitrarie o irragionevoli, che si traducono in una violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3 Cost., oltre che della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Nel percorso logico seguito dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, tale premessa è utile per ribadire la flessibilità del giudicato penale di condanna, a fronte di istanze di tutela verso diritti fondamentali dell’individuo. La Suprema Corte, tuttavia, ritiene non appagante la soluzione adottata dalla Sezioni Unite “Basile” del 2014, che, pur affermando la necessità che la sanzione inflitta extra o contra legem sia rimossa anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, avevano escluso la possibilità di interventi manipolatori che comportino, da parte del giudice dell’esecuzione, l’esercizio di poteri discrezionali. Detta soluzione restrittiva era stata già rimeditata, pur se non in modo espresso, dalle successive sentenze delle Sezioni Unite “Gatto”, “Butera” e “Jazouli”, pronunciate fra il 2014 e il 2015: la Cassazione, infatti, richiamando i principi contenuti in tali arresti, afferma non solo l’assenza di un vincolo di assoluta immodificabilità del trattamento sanzionatorio, ma anche il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena c.d. “incostituzionale” pure nei casi in cui la decisione da assumere non presenti un contenuto predeterminato. Il giudice dell’esecuzione, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale anche diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, gode di ampi e penetranti poteri di accertamento e di valutazione, potendo rivalutare la fattispecie come accertata nel giudizio di cognizione, salvo l’obbligo di fornire una congrua motivazione a supporto delle scelte effettuate. Ebbene, ad avviso della Corte di Cassazione, anche rispetto alle pene accessorie si pongono le medesime esigenze di salvaguardia dei diritti individuali e di adeguamento al sopravvenuto mutamento normativo. L’operazione di c.d. “riqualificazione sanzionatoria” da attuare in via postuma, con riferimento alle pene accessorie del reato di bancarotta, non appare differente rispetto a quelle già ammesse a seguito delle pronunce di incostituzionalità che hanno riguardato, ad esempio, la disciplina dettata in tema di sostanze stupefacenti (C. Cost. n. 32 del 2014) ovvero l’aggravante di c.d. clandestinità, ex art. 61, n. 11 bis, c.p. La rimodulazione del quantum di pena da espiare, opina la Suprema Corte, rientra nelle facoltà conferite al giudice dell’esecuzione dall’art. 676 c.p.p. La disposizione, infatti, presenta una formulazione ampia, priva di limitazioni relative alle attribuzioni decisorie del giudice dell’esecuzione in materia di pene accessorie: essa fornisce un’adeguata base normativa al potere di intervento, in chiave caducatoria o modificativa, della pronuncia definitiva. Non è reputato conferente, invece, il richiamo all’art. 183, disp. att. c.p.p., operato dalle Sezioni Unite “Basile”: la disposizione, infatti, con riferimento al caso in cui venga omessa dal giudice della cognizione una pena accessoria predeterminata nella durata, limita il potere valutativo del giudice dell’esecuzione proprio in ragione degli effetti peggiorativi del carico sanzionatorio derivante dalla pronuncia di condanna. Analoga limitazione non può dirsi sussistente quando l’adeguamento della sanzione già inflitta comporti effetti favorevoli per il condannato. Il giudice di legittimità, inoltre, richiama ed estende alla fase esecutiva il principio di diritto enunciato dalla pronuncia delle Sezioni Unite “Suraci” del 2019. Questa, in particolare, ha chiarito come, dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 216, ult. co., l. fall., il giudice debba fissare la durata delle pene accessorie ivi contemplate non già rapportandola alla durata della pena principale (ex art. 37 c.p.), bensì facendo ricorso ai criteri di commisurazione di cui all’art. 133 c.p.: ciò si rende necessario in ragione della diversa funzione svolta, rispettivamente, dalla pena principale e da quelle accessorie.


SOLUZIONE La Corte ritiene fondata la censura rivolta dal ricorrente all’ordinanza del giudice dell’esecuzione che, non motivando adeguatamente, ha confermato la durata della pena accessoria in anni dieci, coincidente con quella stabilità dall’art. 216, ult. co., l. fall., nel testo dichiarato parzialmente incostituzionale. Più precisamente, si ribadisce che la nuova misura va stabilita dal giudice in via discrezionale e caso per caso, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p., dando atto delle scelte compiute nella motivazione del provvedimento. Da questo punto di vista, la Corte ritiene palesemente incongrua la motivazione del provvedimento. L’ordinanza, infatti, reca un trattamento sanzionatorio accessorio sperequato rispetto a quello principale, non tenendo conto di elementi, quali la non particolare gravità oggettiva della vicenda e la modesta pericolosità sociale dell’imputato, emergenti già dal giudicato di condanna. Per tali motivi, la Corte di Cassazione dispone l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al giudice dell’esecuzione, tenuto a sanare le lacune argomentative riscontrate.



Segnalazione a cura di Fabrizio Ruggieri


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