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Diritto Penale

Il tentativo di reato omissivo improprio

Svolgimento a cura di Erik Giachello

L’ammissibilità del tentativo di reato omissivo improprio è stata oggetto di discussione in dottrina e giurisprudenza, poiché si dubitava che una condotta consistente nella mancata esecuzione di azioni doverose potesse soddisfare i requisiti di idoneità e univocità degli atti, richiesti per la configurabilità del tentativo. Tali perplessità sono state, però, superate da un’interpretazione più coerente con i principi costituzionali e con il contenuto degli artt. 56 e 40, comma 2, c.p. Il delitto tentato è disciplinato, infatti, dal codice all’art. 56 c.p. quale autonoma fattispecie delittuosa, in base ad una lettura combinata dell’articolo in questione e di una disposizione di parte speciale. Esso si configura quando il soggetto non porta a compimento il suo proposito criminoso per circostanze che non dipendono dalla sua volontà. Tuttavia, non tutte le condotte sono idonee a cagionare un rimprovero da parte dell’Autorità, bensì solamente gli atti idonei, diretti in modo non equivoco ad offendere il bene giuridico tutelato. Tale precisazione è coerente con i principi di offensività e di proporzionalità della pena, nonché con le esigenze general-preventive, special-preventive e rieducative. Infatti, si avverte la necessità di punire condotte che sono penalmente rilevanti in astratto, in quanto idonee a ledere o a porre in pe-ricolo un bene giuridico. Allo stesso tempo, però, si percepisce come una condanna equivalente a quella irrogata qualora il reato si fosse consumato sarebbe eccessiva, andando a violare il principio di proporzionalità e venendo percepita come ingiusta dal destinatario, con la conseguente frustra-zione dell’intento di rieducare il reo e di evitare che commetta nuovamente il reato. Proprio partendo da tali esigenze è possibile cogliere l’evoluzione dottrinale maturata in ordine al fondamento della punibilità del tentativo. Secondo un orientamento sostenuto da autorevole dot-trina, infatti, l’esigenza avvertita dal legislatore è quella di contrastare la lesione o la messa in peri-colo dei beni tutelati. A tal fine, si ricorre alla fattispecie del delitto tentato, punendo colui che ha cagionato il pericolo di offendere tali beni, in coerenza con il principio di offensività. Tuttavia, si è rilevato come questa tesi presenti delle criticità, nel momento in cui prescinde dalla colpevolezza dell’autore. Viceversa, la tesi contrapposta eccede nella valutazione della elemento soggettivo, con il rischio di punire anche colui che manifesti la volontà di infrangere la legge. Soluzione che non può essere accettata, traducendosi in una colpa d’autore. Pertanto, al fine di superare le critiche mosse alle precedenti teorie, si è sviluppata un’interpretazione dottrinale mista, che pone l’attenzione sia sul dato oggettivo, valorizzando il principio di offensività, sia sul dato soggettivo, tenendo conto della colpevolezza. Da un lato, il soggetto sarà punibile per delitto tentato qualora abbia tenuto una condotta penalmente rilevante e, dall’altro, egli dovrà aver agito con la coscienza e volontà di commettere il reato. Oltre alla coerenza con i precetti costituzionali, a conferma di questa teoria mista si pone anche l’esegesi del testo dell’art. 56 c.p., che utilizza volutamente la nozione di delitto. Tale espressione consente di comprendere come solamente un comportamento volontario possa comportare un rimprovero. Per converso, deve escludersi la configurabilità del tentativo per le contravvenzioni, poiché queste possono derivare anche dalla colpa dell’agente e non solo dal dolo. Ne deriva che il Legislatore ha ammesso solamente il tentativo doloso e che, pertanto, occorre la volontà di cagionare l’offesa. Ulteriore conferma di questo orientamento si ricava dai requisiti richiesti per la configurazione del tentativo. A tal fine, gli atti posti in essere dal soggetto dovranno essere idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare l’evento. Elementi che hanno rappresentato una svolta rispetto al Codice Zanardelli, consentendo di circoscrivere la fattispecie solamente ad alcune categorie di reato. Per quanto riguarda l’idoneità degli atti, con tale concetto si intende che la condotta del reo deve essere causalmente diretta a cagionare l’offesa. Pertanto, in linea con il principio di offensività, saranno privi del requisito dell’idoneità quei comportamenti che non sfociano in un apprezza-bile grado di pericolosità. Tale giudizio dovrà svolgersi mediante una valutazione causale basata sul criterio della prognosi postuma. In tal modo, saranno penalmente rilevanti soltanto quegli atti che risultino concretamente idonei a cagionare l’offesa. Invece, in merito all’univocità, deve segnalarsi un contrasto in dottrina sul significato del ter-mine. Secondo alcuni autori occorre valutare l’intenzione criminosa dell’autore, per cui saranno atti univoci quelli diretti a cagionare l’offesa voluta dal soggetto. Tuttavia, altro filone dottrinale si con-centra sull’aspetto oggettivo, per cui l’atto è univoco se causalmente orientato a cagionare l’evento, secondo l’id quod plerumque accidit. Peraltro, tale controversia reca con sé il contrasto tra colo-ro che ammettono anche gli atti preparatori ai fini del tentativo e coloro che circoscrivono la fattispecie esclusivamente agli atti esecutivi. Queste differenti interpretazioni hanno una loro rilevanza anche a livello applicativo. In particolare, dal significato attribuito al concetto deriva l’estensione o meno agli atti preparatori. Infatti, mentre è ammessa la configurabilità del tentativo per gli atti esecutivi, esiste un contrasto dottrinale e giurisprudenziale sugli atti pregressi. Sul punto, la dottrina maggioritaria ritiene che l’univocità attenga esclusivamente agli atti tipici, ossia a quelli esecutivi, mentre la giurisprudenza tende ad estenderlo anche agli atti preparatori. In proposito, risultano emblematiche le decisioni della Corte di Cassa-zione in ordine alla configurabilità del tentativo di truffa anche nelle fasi precedenti all’attuazione degli artifizi e raggiri. Infine, preme aggiungere che il delitto tentato richiede un terzo requisito per la sua configurabilità. L’art. 56 c.p. prevede, infatti, che l’azione non si sia compiuta o che l’evento non si sia verifica-to. Nel primo caso si utilizza la nozione di tentativo incompiuto, poiché l’azione non è portata a termine; viceversa, nel secondo si ha un tentativo compiuto, perché la condotta si è perfezionata, ma non ne è conseguito l’evento. Pertanto, il reato non deve essere ancora giunto alla consumazione. Espressione con cui si intende una fase dell’iter criminis in cui la condotta del reo ha prodotto l’offesa al bene giuridico. Di conseguenza, si configura il delitto tentato in luogo di quello consumato quando l’agente abbia posto in essere atti causalmente idonei ad arrecare una lesione o un pericolo, ma questi non si siano prodotti. Comprendere il significato di tali requisiti risulta fondamentale anche per conoscere l’ambito applicativo dell’art. 56 c.p. Infatti, dalla loro combinazione è possibile desumere una serie di ipotesi che non ammettono la configurazione della fattispecie tentata. Innanzitutto, vanno esclusi i delitti colposi, nonché le contravvenzioni, non essendo possibile un tentativo derivante da condotte non volute dall’agente. Pertanto, le stesse ragioni portano la dottrina ad escludere i reati preterintenzionali, nonché le azioni sorrette dal dolo eventuale, essendosi il soggetto limitato ad accettare l’evento infausto, ma senza volerne la realizzazione. Inoltre, non tutti i delitti dolosi prevedono la forma tentata. In particolare, si ritengono esclusi i delitti di attentato o a consumazione anticipata e i reati di pericolo presunto. In tal caso, infatti, la dottrina osserva che si finirebbe per punire il pericolo di un pericolo, in evidente contrasto con il principio di offensività. Allo stesso modo, sono sorte delle perplessità in ordine alla configurabilità del tentativo nel caso di fattispecie omissive, proprie e improprie. Mentre per le prime la dottrina tradizionale tende ad escludere l’operatività dell’art. 56 c.p., per la forma impropria si è registrata un’evoluzione. I principali dubbi sono, infatti, generati dal riferimento agli atti, contenuto nella disposizione sul delitto tentato, che parrebbe escludere la rilevanza di una condotta basata su un’omissione. Il reato omissivo si configura, infatti, quando il soggetto non tiene il comportamento richiesto dalla legge o non impedisce il verificarsi dell’evento, nonostante avesse l’obbligo giuridico di intervenire. Queste due differenti forme di manifestazione del reato omissivo recano con sé la distinzione tra omissione propria ed omissione impropria. Tuttavia, la dottrina ha sviluppato diverse teorie per delineare gli elementi distintivi tra le due tipologie. Alcuni autori distinguono a seconda che la norma preveda un comando ovvero un divieto. Nel primo caso, si configura un reato omissivo proprio, in quanto il destinatario avrebbe l’obbligo di intervenire. Invece, nella seconda ipotesi, opera una fattispecie impropria, poiché il reo sarà ritenuto responsabile ove con il suo comportamento abbia causato un evento. Viceversa, altra parte della dottrina ritiene che la differenza attenga al dato normativo di riferimento, evidenziando che i reati omissivi propri sono fattispecie previste direttamente nelle parte speciale del codice. Ne è un esempio l’art. 593 c.p., che sanziona colui che omette di soccorrere altri per non aver tenuto la condotta dovuta. Per converso, il reato omissivo improprio sarebbe disciplinato dal combinato disposto di cui all’art. 40, comma 2, c.p. e da una norma di parte speciale. Pertanto, questa seconda tipologia non sarebbe enunciata puntualmente nel codice, ma potrebbe configurarsi ogniqualvolta un reato commissivo fosse suscettibile di manifestazione anche a causa di un’omissione. A tal proposito, si utilizza anche la nozione di reati commissivi mediante omissione. Infine, una terza tesi distingue a seconda che si tratti di reati di evento o di pura condotta. Fondando la distinzione sull’elemento strutturale, i sostenitori di questa interpretazione ritengono che il discrimine sia da ravvisarsi in base alle conseguenze della condotta. Nel caso di reati afferenti alla seconda tipologia si configura un’omissione propria, mentre il reato omissivo improprio si ha quando la violazione dell’obbligo giuridico produce un evento che le norme volevano evitare. Tuttavia, anche questa interpretazione non prescinde dal dato normativo, in quanto i reati omissivi propri sono tipizzati nella parte speciale del codice, mentre per quelli impropri si applica il disposto di cui all’art. 40, comma 2, c.p. Tale norma stabilisce, infatti, che il mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuri-dico di impedire equivale a cagionarlo. Di conseguenza, numerose fattispecie contenute nella parte speciale ammetterebbero la forma omissiva, pur in assenza di un espresso riferimento. A tal proposito, si ritiene che sia configurabile un reato omissivo improprio qualora la disposizione contempli un reato a forma libera. Ciò chiarito, occorre aggiungere che i reati omissivi impropri presentano una struttura del fatto tipico simile alla loro controparte commissiva. In questo caso, si ha una condotta omissiva, un evento e un nesso di causalità, a cui si aggiunge, però, l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Questo per-ché non può configurarsi l’illecito qualora il soggetto non abbia assunto la c.d. posizione di garanzia. Su di lui dovrà incombere un obbligo di attivarsi nascente dalla legge penale o extrapenale, da un contratto o da circostanze pregresse. Inoltre, egli dovrà essere nelle condizioni per poter tenere la condotta richiesta. Diversamente, non potrebbe pretendersi un comportamento eccedente le sue capacità. Queste caratteristiche del reato omissivo improprio paiono, tuttavia, collidere con il disposto di cui all’art. 56 c.p. In particolare, la tesi che nega la configurabilità del tentativo fonda il ragionamento sul dato letterale della disposizione, laddove si richiede che il reo abbia tenuto degli atti idonei. Concetto che denoterebbe un’azione da parte del soggetto, escludendone la forma omissiva. Inoltre, a sostegno dell’interpretazione si adducono osservazioni legate alla certezza del diritto. Infatti, l’omissione impropria presuppone che il soggetto abbia l’obbligo di impedire l’evento, per cui il reato si consuma con la sua verificazione. Tuttavia, se non dovesse realizzarsi per altre circostanze, si avrebbe un’incertezza sul momento iniziale della condotta lesiva. Per cui, ne deriverebbe un’incertezza sul giorno in cui il comportamento è divenuto penalmente rilevante. Questo perché il soggetto obbligato ha la possibilità di intervenire fino a quando non si sarà verificato l’esito infausto; conseguenza che non si produce in tale circostanza. Tale orientamento è stato, però, superato da un’altra parte della dottrina, con una soluzione più fedele all’evoluzione subita dalle norme in questione e alle caratteristiche del reato omissivo. Rispetto alla teoria opposta, viene confutato l’argomento letterale mediante un duplice ordine di ragioni. Da un lato, si afferma un’interpretazione lata del concetto di atti, che ricomprende sia l’azione, sia l’omissione. In tal modo, prevale una soluzione più coerente con la previsione contenuta all’art. 40, comma 2, c.p. Dall’altro lato, si sottolinea come l’interpretazione contraria abbia perso vigore con la formulazione contenuta nell’art. 56 del Codice Rocco. Infatti, la disposizione di cui al Codice Zanardelli era strutturata in maniera tale da circoscrivere il tentativo agli atti tipici, ossia ai soli atti esecutivi. Viceversa, il testo vigente non opera più una specificazione, limitandosi ad un riferimento agli atti idonei, diretti in modo non equivoco a cagionare l’evento. Allo stesso modo, si sono superate le perplessità relative all’inizio dell’omissione punibile, valorizzando il principio di offensività. Il tentativo potrà, pertanto, configurarsi nel momento in cui sorge il pericolo di un’offesa al bene giuridico. Infatti, nella fase precedente, il mancato intervento del soggetto non produrrebbe conseguenze dannose, per cui è da questo momento che l’ordinamento gli impone di agire per impedire l’evento. Ad ulteriore conferma dell’ammissibilità del tentativo si può osservare che la soluzione è coerente con il disposto degli artt. 56 e 40, comma 2, c.p. Entrambi richiedono che dall’azione od omissione derivi una conseguenza. Infatti, elemento comune delle due disposizioni è l’applicabilità ai reati di evento, con la conseguenza che anche la mancata attivazione del soggetto obbligato sarà un atto idoneo a configurare il tentativo, qualora l’esito non si fosse verificato per altre circostanze. Tale interpretazione è, altresì, coerente con la ratio delle norme e con i principi costituzionali. Nello specifico, colui che non interviene a fronte di un obbligo giuridico agisce con coscienza e volontà, esponendo al pericolo il bene che doveva tutelare. Pertanto, egli realizza l’esatta condotta richiesta ai fini della configurabilità del tentativo, ossia il volontario superamento di una soglia mini-ma di pericolosità, senza che da ciò derivi l’evento. Sulla base di tali argomentazioni si è giunti ad ammettere la configurabilità del tentativo di rea-to omissivo improprio. A conferma di questa evoluzione si può rammentare un caso esaminato dalla Corte di Cassazione, relativo alla vicenda della madre che tenta di uccidere il proprio figlio neo-nato non allattandolo. In tal caso, si configura un tentativo di omicidio mediante omissione, poiché la donna viola un obbligo nascente da una posizione di protezione, ma il delitto non si consuma per circostanze esterne. Tuttavia, stante il disvalore della condotta e l’esigenza di tutelare il bene giuri-dico della vita, si ritiene ammesso il tentativo. Apprezzamenti simili si possono rinvenire anche in altre ipotesi, come può essere l’infermiere che non somministra un farmaco al paziente per causarne il decesso, ma questi riesca comunque a sopravvivere; ovvero nel caso del tentativo di truffa mediante silenzio. In tale circostanza, infatti, i giudici di legittimità hanno recentemente riconosciuto la configurabilità di una truffa omissiva e, di conseguenza, potrebbe anche ammettersi il tentativo, qualora il delitto non si fosse consumato per circostanze estranee alla volontà del reo. In conclusione, pare ormai superata l’incertezza in ordine alla configurabilità del tentativo di reato omissivo improprio. L’evoluzione del dato letterale, la confutazione delle argomentazioni contrarie e la coerenza con il principio di offensività e con la funzione rieducativa della pena hanno portato la dottrina ad ammettere tale fattispecie.





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