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Diritto Penale

IL GRADO DELLA COLPA: ACCERTAMENTO E RILEVANZA IN MATERIA PENALE

Svolgimento a cura di Marialetizia Modugno.

L’articolo 43, comma terzo, c.p. enuncia la definizione di “colpa”, quale elemento psicologico, in forza del quale è imputabile al soggetto agente l’evento non voluto, allorquando esso si si sia verificato a causa della condotta imprudente, imperita o negligente del soggetto agente.

La consumazione di una fattispecie colposa, consta di tre elementi costitutivi, che ne consentono la verificabilità in concreto, individuabili nella non volontarietà dell’evento, nell’inosservanza delle regole cautelari poste al fine di evitare il verificarsi dello stesso e, in ultimo, nella concreta esigibilità di un comportamento diverso e idoneo ad impedire il fatto.

Al soggetto agente, inoltre, sarà possibile muovere un addebito colposo allorquando l’evento, realizzato in assenza di una concreta volontà, risulti eziologicamente riconducibile all’inosservanza di una regola a contenuto precauzionale, posta a tutela del bene giuridico offeso; saranno quindi imputabili al soggetto agente non tutti gli eventi materialmente verificatisi, bensì solo quelli che rappresentano una concretizzazione del rischio tipico che la norma cautelare mirava ad evitare.

Il sistema normativo distingue l’elemento psicologico della colpa tra generica e specifica, a seconda che la regola cautelare che si assume violata non sia stata positivizzata ovvero risulti codificata in leggi, regolamenti o disposizioni.

In caso di colpa “generica”, occorre dunque verificare la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, non potendosi addebitare al soggetto agente un evento il cui risultato non sarebbe stato prevedibile e comunque prevenibile.

Ulteriore distinzione in materia di colpa attiene invece al grado che la stessa presenta; in merito a tale classificazione si sono contrapposte due tesi principali: da un lato, la tesi che riconduce la colpa alla violazione della regola di comportamento che, nella stessa situazione in cui si è trovato ad operare il soggetto agente, sarebbe stata osservata da un soggetto assunto quale modello di riferimento; dall’altro, la tesi secondo cui occorre altresì fare riferimento ad una misura soggettiva, che risponda a esigenze di personalizzazione della responsabilità penale.

Con riferimento al tratto comune delle due impostazioni, che richiedono di individuare un modello di riferimento per accertare la violazione cautelare e il grado della colpa, si contrappongono inoltre l’orientamento che richiama la figura del ‘bonus pater familias’ e i sostenitori del modello dell’ ‘homo eiusdem professionis et condicionis’.

Più nel dettaglio, il concetto di buon padre di famiglia corrisponde alla diligenza dell’uomo medio, dovendosi valutare che il soggetto agente non poteva non essere in grado di agire come la maggior parte dei consociati.

La tesi opposta ritiene invece che il concetto di ‘homo eiusdem professionis et condicionis’ risponda più efficacemente ad una logica di accertamento della colpa in concreto; il giudizio di rimproverabilità per colpa, infatti, non può basarsi su un concetto astratto come quello della diligenza dell’uomo medio, ma deve contemperare l’analisi delle competenze del soggetto agente e delle circostanze in presenza delle quali la condotta è stata posta in essere.

Occorre, inoltre, distinguere tra colpa comune e colpa professionale. Con la prima si fa riferimento ai casi di attività lecite, in quanto non vietate, per le quali l’ordinamento non tollera l’assunzione di alcun rischio e per le quali vale la regola dell’astensione dal porre in essere attività che per loro natura sono considerate rischiose; la colpa professionale, invece, viene in rilievo in tutti i settori nei quali l’ordinamento, seppur in presenza di attività intrinsecamente rischiose, tollera che tali attività siano poste in essere, in quanto utili socialmente. A tal fine l’ordinamento nel contemperare l’esigenza che tali attività siano svolte con l’esigenza che i beni altrui non siano sottoposti a rischi eccessivi, prevede regole a contenuto precauzionale che delimitino l’ambito del cosiddetto “rischio consentito”. Si configurerà, pertanto, colpa professionale non per violazione della regola che impone l’astensione dallo svolgimento di attività rischiose, bensì per violazione della regola che delimita il rischio consentito, oltre il quale non è possibile operare.

Tra le attività che presentano un grado di elevata intrinseca rischiosità vi è l’attività professionale in ambito medico-sanitario. In particolare, nell’ambito del predetto settore, il quadro normativo e giurisprudenziale è stato di recente interessato da rilevanti modifiche, volte ad assegnare rilievo diverso al grado della colpa, distinta in lieve e grave.

Prima degli interventi normativi, introdotti dapprima con il decreto Balduzzi, successivamente con la L. Gelli-Bianco, in ambito medico-sanitario, il discrimen tra colpa lieve e colpa grave acquisiva rilievo ai soli fini del quantum sanzionatorio nella commisurazione della pena in concreto erogata a discrezione del giudice, non anche ai fini della determinazione della sussistenza della responsabilità. Giova, tuttavia, ripercorrere le tappe che hanno segnato il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sorto in merito alla possibilità di individuare nel grado della colpa un criterio di perimetrazione della responsabilità del soggetto agente, rectius dell’esercente la professione medico-sanitaria. Segnatamente, un primo approdo giurisprudenziale, precedente agli interventi normativi anzidetti, riconosceva nel testo dell’art. 2236 cod. civ., nella parte in cui esonerava da responsabilità per colpa lieve il medico, un principio idoneo ad essere applicato anche con riferimento alla responsabilità penale dell’esercente la professione medico-sanitaria.

Alla luce di tale ricostruzione, solo l’errore definito e qualificabile come “macroscopico” si riteneva potesse essere idoneo ad assumere rilievo penale con conseguente esonero da responsabilità nei casi di colpa lieve. Tale assunto muoveva dalla necessità di accordare agli operatori del settore medico un regime che consentisse loro di operare pur a fronte dell’intrinseca rischiosità delle attività svolte. La teoria suesposta, seppur non esente da critiche, veniva recepita dalla Corte Costituzionale nel 1973, allorquando sosteneva che ben potesse essere utilizzato il riferimento normativo ex art. 2236 cod. civ. nel delimitare la responsabilità penale del medico, in presenza di un errore tipicamente professionale del medico, cagionato per imperizia, non anche in presenza di un errore cagionato per imprudenza o negligenza. Al soggetto agente, quindi, secondo la Corte costituzionale, era possibile muovere addebito per colpa per imperizia solo in presenza di colpa grave, dovendo invece il medico rispondere sia per colpa grave che per colpa lieve nei casi in cui l’errore si verificasse per colpa per imprudenza o negligenza.

L’intervento legislativo del D.L. n. 189 del 2012, cosiddetto Decreto Balduzzi, ha successivamente introdotto a livello normativo la rilevanza del grado della colpa nella determinazione del perimetro della responsabilità penale in ambito medico- sanitario. Più nel dettaglio, il testo normativo prevedeva all’art. 3 che al medico o all’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento dell’attività si attenesse alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non potesse muoversi addebito per colpa lieve, ferma la disposizione ex art. 2043 c.c.

Il medico, quindi, che nel suo operato avesse seguito le linee guida, avrebbe risposto esclusivamente per colpa grave. In assenza di puntuali riferimenti nel testo normativo a distinzioni tra casi di colpa per imprudenza, imperizia o negligenza, sorgeva un dibattito giurisprudenziale in seno al quale vi erano due filoni predominanti. Secondo una prima tesi, pur in assenza di un riferimento testuale, le ipotesi di esonero dalla responsabilità per colpa lieve sarebbero dovute essere circoscritta alla sola colpa per imperizia; secondo altro filone giurisprudenziale in assenza di espliciti riferimenti nel testo normativo, il medico o l’esercente le professioni sanitarie sarebbero andati esenti da responsabilità per colpa lieve, indipendentemente dalla riconducibilità ad imprudenza, imperizia o negligenza.

Appare tuttavia opportuno evidenziare che vigente la disciplina ex D.L. n. 189 del 2012, il discrimen tra colpa grave e colpa lieve operava nella determinazione del perimetro della responsabilità addebitabile, fungendo non più esclusivamente da criterio utile ex art. 133 c.p. ai fini della quantificazione della pena da erogare.

Se, tuttavia, si rinviene un espresso richiamo alla distinzione fra colpa lieve e grave nel decreto Balduzzi, tanto non è avvenuto nella disciplina introdotta dalla L. n. 24 del 2017, c.d. Legge Gelli-Bianco. La novella ha introdotto l’art. 590 sexies c.p., contenente una causa di non punibilità fruibile dal soggetto agente qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, essendo state, tuttavia, rispettate le linee guida dettate in materia e che le stesse risultino adeguate al caso concreto. Il testo normativo, nell’omettere qualsivoglia riferimento al grado della colpa, presente invece nella disposizione precedente, ha destato perplessità con riguardo al concreto ambito applicativo della causa di non punibilità prevista.

Secondo, infatti, un primo orientamento giurisprudenziale non vi sarebbe concreto spazio applicativo per la disposizione in esame e per la causa di non punibilità ivi espressa; se, infatti, il medico o l’operatore sanitario agisse seguendo le linee guida e queste ultime si presentassero adeguate al caso concreto, non potrebbe ritenersi che il soggetto agente abbia operato con imperizia.

Nel voler riconoscere cittadinanza alla causa di non punibilità ex art. 590 sexies c.p. parte della giurisprudenza ha evidenziato che l’operatività della causa di non punibilità andrebbe rinvenuta nella scorretta applicazione concreta della linea guida dettata. Segnatamente, a rigore di tale impostazione interpretativa, la causa di non punibilità ex art. 590 sexies c.p. opererebbe ogniqualvolta, pur individuata correttamente la linea guida da seguire e pur essendo questa adeguata al caso concreto, il soggetto agente commetta un errore nell’esecuzione materiale.

Tale orientamento, tuttavia, si presta ad un contrasto con le disposizioni costituzionali ex art. 3 e 32. L’operatività della causa di non punibilità, infatti, andrebbe estesa ai casi in cui il soggetto agente commetta errori anche macroscopici o grossolani nell’esecuzione materiale della linea guida, così contrastando sia con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. che con la tutela della saluta ex art. 32 Cost. Nel primo caso si verificherebbe una irragionevole disparità di trattamento tra professionisti, nel secondo si consentirebbe di mandare esenti da responsabilità soggetti che commettano errori macroscopici.

Alla luce delle obiezioni suesposte, sul punto si sono pronunciate nel 2018 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che nell’offrire corretta interpretazione all’art. 590 sexies c.p. di nuovo conio ne ha chiarito l’ambito di operatività. Secondo le Sezioni Unite, infatti, pur in assenza di un esplicito riferimento al grado della colpa nel testo normativo, la distinzione tra colpa lieve e grave appare necessaria ai fini dell’operatività della causa di non punibilità; quest’ultima, infatti, troverebbe applicazione nelle ipotesi in cui, ferma la corretta individuazione della linea guida da seguire e ritenuta l’adeguatezza al caso specifico, il soggetto agente commetta un errore nell’esecuzione materiale per colpa lieve, non anche nei casi in cui l’errore si presenti come macroscopico e grossolano.

La graduazione della colpa, pertanto, lungi dall’essere utile ai soli fini della determinazione del quantum della pena, assume rilievo specifico nella determinazione dell’an della responsabilità in ambito medico. L’evoluzione normativa, infatti, e la conseguente evoluzione giurisprudenziale hanno dimostrato che il ricorso alla distinzione tra lieve e grave nella definizione di una condotta colposa sia imprescindibile in settori che sono per loro natura connotati da una intrinseca rischiosità.

Sulla base di tali linee teoretiche, la giurisprudenza di legittimità si è impegnata nel dettare in concreto criteri idonei ai fini dell’accertamento. In particolare, secondo la Suprema Corte, deve valutarsi in primo luogo il grado di scostamento della condotta concretamente tenuta rispetto al protocollo comportamentale dettato per il caso concreto, in secondo luogo l’accertamento deve avere ad oggetto anche l’evento finale infausto secondo la previsione di cui all’art. 61 n.3 cod. pen.

Segnatamente, qualora si dovesse vertere in ipotesi di colpa cosciente, perché l’evento era in concreto prevedibile, l’errore commesso e conseguentemente il grado della colpa deve considerarsi grave. A ciò si aggiunga che la valutazione in ordine alla gravità del fatto colposo deve tener conto del grado di specializzazione del soggetto agente; si verte, infatti, in ipotesi di colpa grave qualora ad operare sia un soggetto dall’elevata specializzazione essendo da quest’ultimo esigibile un corrispondente elevato standard di perizia. In ultimo, deve tenersi conto delle circostanze concrete in cui il medico, rectius l’operatore sanitario, ha svolto la propria attività, con particolare riferimento al livello di organizzazione e le dotazioni della struttura sanitaria in cui ha operato.





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