LA MASSIMA
“Il dolo eventuale non è di per sé incompatibile con la connotazione del furto quale reato a dolo specifico; quest'ultimo, essendo costituito da una finalità ulteriore rispetto a quella diretta alla realizzazione dell'evento tipico (impossessamento mediante sottrazione a chi la detiene, della cosa altrui) non esclude affatto, ma anzi presuppone che il dolo richiesto per detta realizzazione sia invece quello generico, comprensivo quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile appunto nell'accettazione del rischio che l'azione di impossessamento materialmente posta in essere abbia ad oggetto cose legittimamente detenute da altri”.
“Per aversi derelizione non è sufficiente l'abbandono della cosa (o la sua perdita), dovendo questa essere accompagnata dalla volontà di spogliarsi del bene. Siffatta volontà di spogliarsi del bene da parte del proprietario, non può semplicemente supporsi, ma deve risultare dalle condizioni di tempo e di luogo dell'abbandono della cosa”.
“Per pubblica fede deve intendersi la particolare situazione in cui si trovano quelle cose che, non sottoposte a custodia diretta, hanno la loro tutela nel sentimento collettivo di onestà e di rispetto della proprietà altrui e, per ciò stesso, sono esposte ad un maggiore pericolo. È pubblica fede, dunque, il senso di rispetto verso la proprietà altrui sul quale conta chi deve lasciare una cosa (anche solo temporaneamente) incustodita”.
IL CASO
La Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado che aveva affermato la penale responsabilità di tre imputati, in concorso tra loro, per il reato di tentato furto pluriaggravato.
La rea condotta si era tradotta nell’aver compiuto, al fine di trarre ingiusto profitto, atti diretti in modo non equivoco ad asportare da un terreno di proprietà non recintato dei tubi di acciaio dal cospicuo valore economico, con le aggravanti di aver commesso il fatto con violenza sulle cose e su cose esposte alla pubblica fede.
Avverso la decisione di secondo grado, è stato proposto ricorso per Cassazione da parte dei tre imputati.
Il primo ricorrente lamenta la violazione dell’art. 624 c.p. per aver la Corte territoriale sostenuto la sussistenza del dolo eventuale, consistito nell’accettare il rischio di sottrarre i beni a chi li deteneva, sebbene l’imputato avesse addotto di aver agito nel pieno convincimento di svolgere un’opera lecita per conto dei due correi, quali suoi committenti.
Gli altri due ricorrenti avanzano precipuamente due doglianze. Innanzitutto, argomentano l’assenza di consapevolezza dell’altruità della cosa, rilevando la natura di “res derelictae” dei materiali metallici che apparivano abbandonati e di scarto all’interno di un fondo privo di recinzione. Inoltre, contestano l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, poiché non erano presenti degli indicatori che riconducessero i condotti ondulati alla proprietà di un altro soggetto.
LA QUESTIONE
La sentenza in commento pone l’accento su tre profili, ossia la compatibilità fra il dolo specifico e il dolo eventuale, la derelizione del bene e l’esposizione alla pubblica fede.
Quanto all’elemento soggettivo, occorre evidenziare preliminarmente la distinzione tra dolo specifico e dolo eventuale.
Il dolo specifico ricorre quando la legge dà rilevanza a un fine particolare che si pone oltre il fatto materiale tipico e il cui concreto raggiungimento non è necessario per la consumazione del reato. Nel caso del furto, il soggetto deve agire con l’intento di trarne profitto.
Il dolo eventuale, invece, si configura quando l’agente preveda un determinato evento come conseguenza della sua condotta e agisce accettando il rischio del suo verificarsi.
Nel tempo, la giurisprudenza ha elaborato la compatibilità fra il dolo eventuale e i reati connotati dal dolo specifico, sottolineando che il dolo specifico presuppone il dolo generico (consistente nella semplice coscienza e volontà del fatto) e comprende, di conseguenza, anche quello eventuale.
In merito all’analisi della “res derelicta”, si è consolidato l’orientamento per cui una cosa è da ritenersi abbandonata quando risulti chiara la volontà del proprietario di disfarsene definitivamente, intento da dedursi dalle condizioni o dal luogo in cui il bene si trova.
Sicché, la permanenza del legame proprietario non risulta recisa quando l’avente diritto possa riappropriarsi della res o esercitare un controllo sulla stessa anche in un futuro non prossimo.
Infine, la pubblica fede consiste nel sentimento di rispetto verso la proprietà o il possesso altrui sul quale conta chi deve lasciare una cosa incustodita, esponendola, dunque, a un maggior rischio di sottrazione.
Ai sensi dell’opinione prevalente in giurisprudenza, l’esposizione alla pubblica fede si delinea qualora un numero indeterminato di persone possa venire in contatto con la cosa, a prescindere dal fatto che si trovi in luoghi pubblici o privati. Si precisa che in caso di luoghi privati, il bene può essere raggiunto da chiunque senza dover superare ostacoli significativi.
LA SOLUZIONE
La IV Sezione della Suprema Corte annulla la sentenza nei confronti del primo ricorrente e rinvia ad altra sezione della Corte di appello per un nuovo giudizio, dal momento che la decisione di secondo grado è carente, sotto il profilo motivazionale, nell’analisi della sussistenza del dolo.
I giudici di legittimità, infatti, osservano che la Corte di appello non ha affrontato la circostanza “relativa alla collocazione dei beni su un fondo non recintato, accessibile a chiunque, ed il suo riflesso sulla rappresentazione dell'altruità della cosa, rispetto alla legittima detenzione in capo ai committenti.”
La medesima IV Sezione, poi, dichiara inammissibili i ricorsi degli altri due imputati.
Fermo restando che non è ipotizzabile il delitto di furto se il soggetto attivo è caduto in errore circa l’altruità della cosa credendola abbandonata, nel caso di specie, però, afferma la Cassazione, “non può assumersi che si sia realizzato un assoluto disinteresse per il bene, e ciò in quanto, come correttamente osservato dalla Corte, i beni, nonostante la loro qualità di materiale di risulta, non solo avevano un elevato valore commerciale, ma erano ordinatamente collocati su un terreno ben tenuto ed il che implica l'insussistenza della volontà di disfarsi del bene.”
In ultimo, con riguardo all’esposizione alla pubblica fede, si è asserito che la circostanza per cui i tubi, oggetti materiali del reato, si trovassero su un fondo di proprietà non recintato, avvalora l’esistenza dell’aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7. Infatti, “Non è neppure contestato che, nel caso di specie, il materiale oggetto del delitto fosse mantenuto dal detentore su un fondo di sua proprietà non recintato, il che integra senz'altro, la circostanza dell'esposizione alla pubblica fede.”
Segnalazione a cura di Vincenza Urbano
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