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Diritto Penale

FURTO - APPROPRIAZIONE INDEBITA - Cass., Sez. II, sentenza 18.10.2019, n. 4132.

LA MASSIMA “Ove, per le caratteristiche intrinseche dell’oggetto, sia individuabile il suo titolare, chi si appropri dello stesso commette il delitto di furto e non di appropriazione di cosa smarrita, impossessandosi di bene altrui, e la successiva circolazione comporta la contestazione ai successivi possessori della fattispecie di ricettazione, perché anche loro nella condizione psicologica di conoscere l’altruità della cosa e la sua origine illecita”

IL CASO Con sentenza del 5 luglio 2018 la Corte d’Appello di Milano ha confermato le conclusioni del Tribunale di Monza in merito alla responsabilità dell’imputato per il delitto di ricettazione di una carta Postepay provento di furto. Avverso tale provvedimento, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, manifesta illogicità della sentenza in ordine all’elemento psicologico del reato e, in particolare, alla asserita consapevolezza della provenienza illecita della carta. In secondo luogo, il difensore dell’imputato lamentava l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla qualificazione giuridica del fatto come furto e non come appropriazione indebita di cose smarrite, oggi depenalizzata, configurabile laddove il soggetto agente si sia appropriato di beni volontariamente abbandonati dal titolare.

LA QUESTIONE Con la sentenza in esame la Cassazione ha precisato a quali condizioni la condotta di colui che si appropri di un bene apparentemente abbandonato ma che, in virtù delle proprie caratteristiche intrinseche, sia facilmente riconducibile al titolare, costituisce un’ipotesi di furto invece che di appropriazione indebita di cosa smarrita, non più rilevante in sede penale. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità aveva già avuto occasione di chiarire che la perdita della materiale disponibilità di beni agevolmente riconducibili all’effettivo titolare, quali assegni o carte di credito, non comporta alcuna decadenza dal potere di fatto sugli stessi, così impedendo qualsiasi tentativo di una loro qualificazione come “cose smarrite”. È pacifico, infatti, che ai fini della sussistenza dell’ipotesi precedentemente individuata dall’art. 647 c.p. era necessario l’accertamento di tre requisiti: l’uscita del bene dalla sfera di disponibilità del titolare, l’ignoranza del luogo di ubicazione della cosa, e quindi l'impossibilità di rientrarne in possesso, e l’assenza di qualsivoglia segno esteriore tale da consentire l’identificazione del titolare. Elemento, quest’ultimo, incompatibile con gli strumenti, nominativi e di immediata individuazione, presi in esame dalla Cassazione.

LA SOLUZIONE La Corte, condividendo i precedenti approdi della giurisprudenza di legittimità, ha escluso che una carta Postepay, deputata all’acquisto di beni e servizi e, in quanto tale, dotata di evidenti segni di riconoscimento, possa essere classificata come “cosa smarrita” riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 647 c.p., oggi depenalizzato. L’elemento di discrimine è rappresentato dalla circostanza che il bene oggetto di appropriazione presenti segni e indicazioni tali da consentire all’agente di avere immediata contezza dell’altruità della cosa. La natura intrinseca dell’oggetto materiale, il titolare del bene, pur temporaneamente impossibilitato ad esercitare qualsiasi forma di controllo, non ha rinunciato al potere di fatto sullo stesso ma, al contrario, ne mantiene l’esclusiva disponibilità, sicché non può parlarsi propriamente di smarrimento. Tanto più se oggetto del reato è una carta di credito o, come nel caso di specie, una Postepay, caratterizzata da segni e indicazioni esteriori che ne attestano inequivocabilmente l’appartenenza ad un determinato soggetto e che, conseguentemente, non possono creare nell’agente incertezze e dubbi sul punto. Ciò che rileva maggiormente ai fini della qualificazione giuridica del fatto è, pertanto, la condizione psicologica del soggetto attivo che, determinandosi ad acquisire la disponibilità di un bene che appaia chiaramente di proprietà di altri, ha la consapevolezza, o quantomeno accetta il rischio, di sottrarlo indebitamente ad altra persona, intestataria dello stesso. Tale condotta, precisa la Corte, non può essere inquadrata nello schema della fattispecie depenalizzata di cui all’art. 647 c.p., dovendosi invece ricondurre ad una vera e propria ipotesi di furto, con conseguente configurabilità, peraltro, dell’ulteriore delitto di ricettazione in capo a chiunque ne dovesse successivamente acquisire il possesso. Ciascun detentore, invero, sarebbe posto nella medesima condizione idonea a rendere di immediata evidenza l’altruità della cosa e, quindi, la sua provenienza illecita.

Segnalazione a cura di Alessandra Manca Bitti


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