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Diritto Penale

FONDAMENTO E PORTATA DEL DIVIETO DI ANALOGIA: LIMITI DELL'ANALOGIA IN BONAM PARTEM

di Benedetta Mauro

Le disposizioni preliminari al codice civile contengono una norma generale in materia di analogia, all’art. 12, che consente all’interprete di colmare eventuali lacune dell’ordinamento. Quando il giudice si trova di fronte ad una controversia che non può essere decisa ricorrendo ad una determinata disposizione, dovendo comunque pronunciarsi, potrà ricorrere o all’analogia legis o all’analogia iuris. Nel primo caso applicherà disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe, nel secondo caso, non potendo ravvisare simili norme, deciderà secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico. Tuttavia, in ambito penale, l’art. 14 delle stesse disposizioni pone un divieto di analogia prevedendo che le norme penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi, non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati. Le ragioni sottese a tale divieto vanno ricercate nell’esigenza di garantire la la tassatività e precisione della fattispecie penale. Il principio di tassatività attiene alla tecnica di formulazione della legge penale e si rivolge sia al legislatore che al giudice. Per far sì che il cittadino sia posto nella condizione di conoscere, con sufficiente precisione, il contenuto della norma, il parlamento, organo deputato a compiere le scelte di politica criminale, deve non solo descrivere il precetto in modo tale da non risultare ambiguo nel suo significato ma anche utilizzare concetti che possano poi essere riscontrabili nella realtà empirica e quindi essere facilmente accertabili dal giudice. In questo modo la libertà individuale del cittadino viene tutelata, non dall'arbitrio del potere esecutivo come fa la riserva di legge, ma dall’arbitrio del potere giudiziario. Si vuole impedire che la lacuna normativa possa essere colmata dal giudice perché laddove la norma fosse eccessivamente vaga, l'ermeneutica potrebbe degenerare in una attività creativa di diritto. Sebbene non esplicitamente enunciato nella Carta costituzionale, secondo l'orientamento prevalente tale principio avrebbe comunque un fondamento nella costituzione. Alcuni autori richiamano l’articolo 25 della Cost nella parte in cui prevede che nessuno può essere punito se non per un fatto previsto dalla legge come reato. Tale inciso indicherebbe non soltanto l'esigenza che il precetto sia previsto direttamente dalla legge, secondo il principio della riserva di legge, ma anche che sia formulato con un certo grado di determinatezza e precisione. L'esigenza di tutela e garanzia della libertà individuale, sottesa al principio di legalità nel suo corollario della riserva di legge, sarebbe compromessa se la legalità fosse intesa soltanto come monopolio del legislatore e non fosse accompagnata da un vincolo costituzionale, che richieda un tasso minimo di puntualità nello stabilire i comportamento che configurano reato, sì da evitare il rischio di arbitrio del potere giudiziario nel definire i confini della fattispecie incriminatrice. Altri autori ne individuano il fondamento, oltre che nell’art 25 Cost., anche nell'articolo 24, che costituzionalizza il diritto alla difesa nel processo penale. Tale diritto sarebbe difficilmente esercitabile in presenza di una norma incriminatrice generica e vaga nella descrizione di ciò che è reato. Il destinatario della norma, per potersi difendere, deve sapere quali elementi costitutivi della fattispecie astratta gli vengono contestati ed in base a questi potrà dimostrare che il fatto concreto non presenta tali elementi. Tuttavia se questi sono descritti in modo vago o generico, l'accusato non saprà da che cosa dovrà difendersi, non saprà di quali elementi dovrà provare la mancanza nel fatto concreto. Infine, il fondamento costituzionale del principio può essere rinvenuto nell'articolo 27 della costituzione, ossia nel finalismo rieducativo della pena dato che si può rieducare qualcuno soltanto se questi ha commesso il fatto potendo prevedere le conseguenze penali della propria condotta. Accertato che il divieto di analogia trova fondamento e ratio nel principio di tassatività, determinatezza o precisione e che a questi occorre far riferimento nel ricostruire l’istituto in esame, appare essenziale saper distinguere il procedimento analogico da quello interpretativo e, in particolare, tra analogia ed interpretazione estensiva ovvero tra ciò che è vietato in ambito penale e ciò che al contrario è tendenzialmente consentito. L’interpretazione estensiva attribuisce alla norma un significato che è compatibile con il suo tenore letterale e testuale, il giudice nell’interpretare chiarisce il significato della formulazione testuale della disposizione, utilizzando tutti i criteri interpretativi che portano ad attribuire alla norma un significato che rimane entro il perimetro assegnato dal tenore letterale della disposizione e che pertanto sono ammessi. Si tratta del criterio letterale, teleologico, sistematico, dell’interpretazione costituzionalmente conforme e della interpretazione convenzionalmente orientata. Il giudice, quando effettua l’operazione di interpretazione della norma, non va ad integrare la norma, non va a colmare una lacuna. Si limita a chiarire il significato della norma, a differenza di ciò che avviene con l’operazione analogica. A questo punto occorre chiedersi se il divieto in parola, come descritto dall’art 14 delle preleggi, sia assoluto o relativo, riguardante tutte le norme penali o solo quelle di sfavore e quindi se sia ammissibile in ambito penale un’analogia in bonam partem. Si tende ad ammettere l’analogia in diritto penale quando vengono in rilievo norme di favore come le norme scriminanti, le norme che contengono cause di esclusione della colpevolezza, secondo un’accezione relativa del divieto per cui, pur non essendo consentita un’analogia in malam partem, è comunque ammessa quella in bonam partem. Tuttavia pur ammettendo un’operazione analogica in bonam partem, occorre ricordare il tenore dell’art 14 preleggi e in particolare che il divieto di analogia colpisce anche le norme eccezionali. Pertanto, una norma di favore sarà applicabile in via analogica in ambito penale purché in bonam partem, ma fermo il limite della non eccezionalità: deve cioè trattarsi sì di norma di favore ma non eccezionale. In secondo luogo, quando un caso non è contemplato dalla disciplina penale, non per dimenticanza del legislatore ma per una scelta precisa, questa lacuna non può essere colmata dal giudice con il ricorso al procedimento analogico; difatti, occorre che la lacuna normativa non sia intenzionale. Tanto premesso, occorre esaminare in modo più approfondito le categorie di favore che in astratto potrebbero essere applicabili in via analogica. Trattasi delle norme che prevedono scriminanti, cause di esclusione della colpevolezza o della sola punibilità. Le cause di giustificazione sono situazioni in presenza delle quali, un fatto riconducibile ad una fattispecie incriminatrice, risulta lecito non solo nell'ordinamento penale ma in tutto l’ordinamento. Alcuni autori hanno sostenuto che le norme scriminanti non potrebbero essere applicate in via analogica in quanto norme eccezionali. Si tratta di una tesi minoritaria se solo si considera che tra le norme incriminatrici e quelle scriminanti non c'è un rapporto di regola - eccezione. Le cause di giustificazione sono infatti espressione di principi generali dell’ordinamento. Tuttavia le scriminanti, nell’accordare prevalenza al favor libertatis, sacrificano il bene giuridico di un terzo e pertanto è evidente che non può ammettersi l'analogia rispetto a quelle scriminanti previste dalla legge nella loro massima portata logica, in quanto tali definite dalla dottrina “fattispecie complete”. Per quanto riguarda invece le cause di esclusione della colpevolezza, situazioni in presenza delle quali è esclusa la punibilità perché dal soggetto non era esigibile un comportamento conforme alla legge penale, non è possibile ricorrere all’analogia iuris. Non si può infatti consentire l'ammissione di cause di esclusione della colpevolezza non codificate attraverso lo strumento dell’analogia iuris solo perché la punizione appare ingiustificata alla stregua dei principi generali dell'ordinamento giuridico. Non potrebbe ammettersi nemmeno l'operatività dell’analogia legis perché, quando il legislatore individua una scusante, opera una scelta precisa che è quella di escludere l'esigibilità di un certo comportamento. Anche in presenza di una ipotetica lacuna, si tratterebbe pur sempre di una lacuna intenzionale che non può essere riempita con lo strumento dell’analogia. Con riferimento, infine, alle cause di esclusione della punibilità, situazioni in presenza delle quali il legislatore rinuncia ad applicare la sanzione penale pure in presenza di un fatto penalmente rilevante ritenendo la relativa punizione inopportuna, dottrina e giurisprudenza concordano in merito alla natura eccezionale delle stesse, che esclude l'operatività del divieto di analogia. È quanto la Corte Costituzionale ha sostenuto (sentenza n. 140/2009) in merito all’estensione analogica della causa di non punibilità ex art. 384 c.p. ai conviventi more uxorio, che non sono annoverati dal Codice penale, all’art. 307, tra i prossimi congiunti cui si applica la disposizione citata. Tuttavia, la Corte di Cassazione, dapprima nel 2009 e quindi nel 2015 e da ultimo nel 2019 ha aggirato l’ostacolo della eccezionalità della norma in esame attraverso il ricorso ad un’interpretazione evolutiva della nozione di prossimi congiunti. Si è infatti sostenuto che, anche alla luce della nozione di famiglia di fatto e non di diritto sposata dalla Convenzione EDU, nonché dei mutamenti sociali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, che l’art. 307 c.p. e quindi l’art. 384 c.p. debbano essere interpretati in maniera evolutiva ed estensiva, inglobando le ipotesi di convivenza more uxorio. Si tratta di una soluzione criticata in dottrina in quanto palesemente elusiva del divieto ex art. 14 Preleggi, poiché si finisce per “mascherare” da interpretazione estensiva-evolutiva una forma di analogia legis. Tuttavia tale approccio è stato registrato nella giurisprudenza di legittimità anche in materia di stampa online, con riferimento alle garanzie previste dalla Costituzione per il sequestro degli stampati, nonché alla causa di non punibilità ex art. 649 c.p., anche in questo caso con riferimento ai conviventi more uxorio. Si tratta di interventi giurisprudenziali che, seppur volti a superare l’inerzia del legislatore a fronte di esigenze di tutela e giustizia generalmente avvertite dalla società, contrastano tuttavia con i principi generali del diritto penale. Deve tuttavia darsi atto del sempre più frequente ricorso a tale strumento che dunque, nelle forme dell’interpretazione evolutiva e convenzionalmente orientata, che in alcune pronunce viene definita “socialmente orientata”, costituisce oggi di fatto una deroga al predetto divieto, purchè tuttavia operi in bonam partem.

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