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Diritto Penale

ESTORSIONE - USURA - Cass. pen., II Sez., 30 dicembre 2020, sentenza n. 37817

MASSIMA

“E’ configurabile il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius.”


“E’ configurabile il reato di usura o di estorsione a seconda che l'iniziale pattuizione usuraria sia stata spontaneamente accettata dalla vittima, ovvero accettata per effetto della violenza o minaccia esercitata dal soggetto attivo, mentre i due reati possono concorrere quando la violenza o minaccia siano esercitate al fine di ottenere il pagamento degli interessi pattuiti o degli altri vantaggi usurari.”


IL CASO

La vicenda in esame trae origine da una sentenza del Corte d’Appello che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermava la responsabilità dell'imputato in ordine a diversi episodi di usura aggravata e a due condotte estorsive.


Invero, i giudici di merito fondavano il giudizio di responsabilità sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, la quale aveva riferito di avere ottenuto diversi prestiti ad interessi usurari da parte dell’imputato, e di avere - a garanzia di uno di questi prestiti - sottoscritto un fittizio contratto preliminare di vendita della propria casa di abitazione, una procura a vendere il medesimo immobile e un riconoscimento di debito (sempre in favore dell’imputato); nonché - a garanzia di un altro prestito - di avere rilasciato una procura a vendere un'autovettura di sua proprietà.


Avverso la sentenza di secondo grado, la difesa ha proposto ricorso rilevando diversi motivi, tra i quali:

-violazione dell'art. 629 c.p. e vizio di motivazione in ordine ad una condotta di estorsione contestata;

-violazione degli artt. 629 e 644 c.p. e vizio di motivazione in relazione al reato di estorsione.


LA QUESTIONE

Con riferimento al primo motivo quivi segnalato, la questione di diritto verte sul tenore di un messaggio inviato dall’imputato alla persona offesa, quale espressione di una volontà estorsiva e non di una legittima pretesa mirante a concordare la data di rilascio dell'immobile adibito ad abitazione della persona offesa.


Quanto al secondo motivo indicato, la questione (che, invero, trae origine dalla contestazione difensiva circa la rilevanza penale dell’acquisto dell’autovettura della persona offesa da parte dell’imputato) ha ad oggetto la corretta qualificazione giuridica della condotta sussunta nel delitto di estorsione, estrinsecatasi nella (forzata) vendita dell'autovettura della persona offesa a favore dell'imputato ad un prezzo pari alla metà del valore dell’autovettura stessa.


LA SOLUZIONE

La Suprema Corte, nell’esaminare le questioni in punto di diritto, ritiene generico e manifestamente infondato il primo motivo poiché il ricorrente ha basato le proprie doglianze sulle caratteristiche di un messaggio solamente, tralasciando il reiterato comportamento di minaccia e pressione posto in essere dall'imputato esplicitatosi in molteplici atteggiamenti intimidatori.

In particolare, la Corte sottolinea che il messaggio lasciato dall'imputato nella segreteria telefonica ha un contenuto univoco e lo scopo evidente di intimidire la persona offesa ed indurlo a corrispondere il capitale dovuto, pena l’obbligo di abbandonare fisicamente la propria abitazione (aggiudicata all'asta in favore dell’imputato). A tal riguardo i giudici di legittimità ribadiscono il (primo) principio di diritto testé indicato.


In relazione al secondo motivo, la Corte, preliminarmente dichiara infondato il motivo dedotto dalla difesa circa la non rilevanza penale dell’acquisto dell’autovettura - da parte dell’imputato - ad un prezzo pari alla metà di quello di acquisto della persona offesa. Successivamente, riqualifica la condotta ascritta all'imputato come reato di usura, poiché questi a fronte di un prestito di 20.000 Euro aveva ottenuto la proprietà di un'autovettura che valeva più del doppio.

Pertanto, dopo aver citato il (secondo) principio di diritto suesposto, la Suprema Corte rileva che non è condivisibile l’impostazione dei giudici di merito volta a ritenere la condotta di usura assorbita dal più grave reato di estorsione, giacché si è trattato di una libera pattuizione nell'ambito della quale l'imputato aveva imposto le proprie condizioni, usurarie ma non estorsive, per concedere un ulteriore prestito alla p.o., subordinandolo al rilascio della procura a vendere l'autovettura.


La Corte, dunque, riqualifica quest’ultima condotta ai sensi dell'art. 644 c.p., annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di secondo grado. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso e irrevocabile l'accertamento di responsabilità.


Segnalazione a cura di Vittorio La Battaglia


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