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Diritto Penale

ESTORSIONE - ESERCIZIO ARBITRARIO - Cass. Sez.Un., 23 ottobre 2020 (ud. 16 luglio 2020), n. 29541

LE MASSIME

«I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo».

«Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie».

«Il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità».


IL CASO

Gli imputati, ritenuti colpevoli di concorso in tentata estorsione aggravata, commessa da più persone riunite e con metodo mafioso, presentavano ricorso lamentando l’erronea qualificazione giuridica dei fatti accertati cui la C.d.A. era pervenuta.

La II Sez. pen. a cui il ricorso veniva assegnato, rilevando l'esistenza di contrasti interpretativi in ordine alla distinzione tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, alla natura giuridica (di reato comune o proprio) dei primi ed alla configurabilità del concorso in essi del terzo non titolare del diritto azionato, ne disponeva la rimessione alle S.U.


LA QUESTIONE


Le questioni di diritto la cui risoluzione è stata rimessa alle S.U. erano le seguenti:

1) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle

persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento

oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della

minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in

tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento;

2) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile.


LA SOLUZIONE


Le S.U. traggono abbrivo dalla seconda delle questioni menzionate, la cui soluzione è ritenuta dalla Corte logicamente prioritaria.

Nel rispondere al quesito posto dalla Sezione remittente, le S.U. ricordano come lo scopo delle incriminazioni di cui agli artt. 392 e 393 c.p. sia quello di impedire che il privato si faccia ragione da sé compromettendo la pubblica pace. Coerentemente con tale ratio dell’incriminazione, l'oggetto della tutela è stato ravvisato in un interesse pubblico, e precisamente nell'interesse dell'Autorità giudiziaria all'esercizio esclusivo dei suoi poteri, come confermato dalla collocazione sistematica delle norme. Il Collegio rileva, inoltre, come l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assuma rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone. In particolare, nel reato previsto dall'art. 392 c.p. ricorrono sempre o quasi gli estremi del fatto di danneggiamento (art. 635 c.p.), mentre in quello previsto dal successivo art. 393 sono configurabili in ogni caso gli estremi del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.): l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, tuttavia, punito meno gravemente dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti. Può, pertanto, convenirsi con la dottrina che questa disciplina trova l'unica plausibile giustificazione nella considerazione che «il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena». I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano, dunque, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe "ricorrere al giudice", acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima. I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni possono dunque dirsi avere la natura giuridica di reati propri.

Non costituisce, d’altronde, apprezzabile ostacolo a tale qualificazione l'indicazione, negli articoli 392 e 393 c.p., del soggetto attivo come “chiunque”, dato valorizzato dal diverso orientamento che qualifica i reati in menzione come reati comuni: appare, infatti, sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente "propri", il soggetto attivo è normativamente indicato in "chiunque” (es. art. 372, 564 c.p.). Il "chiunque" indicato dagli articoli 392 e 393 c.p. è, dunque, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto. Approfondendo la questione, circa la configurabilità di una negotiorum gestio ex art. 2028 ss. c.c. (che postula lo svolgimento di un'attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell'esclusivo interesse di un altro soggetto, ed è caratterizzata dall'assoluta spontaneità dell'intervento del gestore) la Corte rileva che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni delle condotte poste in essere sponte da terzi, che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d'intesa con il creditore, comporterebbe l'immotivata applicazione del previsto regime favorevole, che trova giustificazione proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo. Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all'iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata).


Una volta affermata la natura di reato proprio dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, le S.U. affrontata la questione logicamente consequenziale, ossia se si tratti, o meno, di un reato proprio esclusivo, o di mano propria.

L'orientamento attualmente dominante nella giurisprudenza ritiene che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica deve essere posta in essere dal soggetto "qualificato", ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore, come dimostrerebbe l’inciso “da sé medesimo” contenuto nella norma: di conseguenza, quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L'assunto sarebbe corroborato dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell'interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può — in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "da sé medesimo", non può mai essere tollerata l'intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell'amministrazione della giustizia.

Secondo le S.U. tale orientamento non può essere condiviso: dall’analisi dei lavori preparatori al codice del 1889, da cui il codice del ’30 mutua l’espressione, la Corte desume il significato meramente pleonastico tradizionalmente attribuito all’inciso in oggetto, mai messo in discussione e da solo non idoneo a sorreggere la qualificazione giuridica dei reati in parola come reati di mano propria.


Circa la prima delle questioni sopra enucleate, ossia i rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione, la Corte rileva l'esistenza di un ulteriore contrasto giurisprudenziale circoscritto soltanto ai casi «in cui l'aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria», ritenendosi pacificamente configurabili come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela.

Emergono, in proposito, diversi orientamenti.

La giurisprudenza tradizionale ritiene che il criterio differenziale tra i delitti di cui agli articoli 629 e 393 c.p. consista nell'elemento intenzionale, in quanto nel primo l'intenzione dell'agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un'utilità che ritiene spettargli senza adire l'Autorità giudiziaria.

In epoca successiva l'orientamento prevalente ha distinto i delitti di cui agli articoli 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all'elemento psicologico: nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell'estorsione, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto.

Altro orientamento ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all'art. 393 cod. pen., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell'agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza: di conseguenza, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza

intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell'altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell'ingiustizia e fa assumere alla condotta connotazioni estorsive.

Le S.U., aderendo al secondo degli orientamenti citati, ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all'elemento psicologico. Infatti, sia l'art. 393, co. 3, c.p. che l'art. 629, co. 2, c.p. prevedono che la pena è aumentata «se la violenza o minaccia è commessa con armi», senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco: è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato all'uso di un'arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero "costrittiva", e comunque "sproporzionata", rispetto al fine perseguito.

In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l'incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto.

Quindi, nel delitto ex art. 393 c.p. l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che

potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; in quello ex 629 c.p., invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.

Ai fini della configurabilità del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, pur non richiedendosi che il diritto oggetto dell'illegittima tutela privata sia realmente esistente e che la pretesa sia fondata, deve tuttavia sussistere una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base, poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo. La verifica circa l’esistenza di tale requisito è preliminare e decisiva giacché, se esso manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del diverso delitto di estorsione.


In relazione all’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione vanno accertati secondo le ordinarie regole probatorie: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.

Non può, infine, essere condiviso l'orientamento che qualifica il fatto sempre come estorsione al ricorrere delle caratteristiche del “metodo mafioso”: la formulazione dell'art. 416-bis.1 cod. pen. non consente, infatti, di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all'art. 393 cod. pen.; residua al più la possibilità di valorizzare l'impiego del c.d. "metodo mafioso", unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione.


In ultimo, in relazione alla configurabilità del concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione – richiamati i principi per cui il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo e si differenzia da quello di estorsione in relazione all'elemento psicologico – la Corte afferma consequenzialmente che a risultare determinante sia la circostanza che i terzi eventualmente concorrenti del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l'interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. "finalità mafiosa" la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell'art. 629 c.p.., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità di profitto di terzi. D'altro canto, non è configurabile il reato ex 393 c.p., bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista de conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori.

Così focalizzata la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ed il reato di estorsione, appare evidente che, diversamente da quanto ritenuto nell'ordinanza di rimessione, non residui alcuno spazio per ipotesi di concorso formale, risultando le due fattispecie, proprio in relazione all'elemento psicologico, alternative: nei casi di concorso in estorsione, l'eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta, infatti, assorbito nel concorrente fine di profitto illecito dei terzi concorrenti.


Segnalazione a cura di Benedetta Scarcella





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