top of page
Diritto Penale

ESTORSIONE - ESERCIZIO ARBITRARIO - Cass. Pen., Sez. II, Ordinanza, 16 dicembre 2019, n. 50696

IL CASO La Corte d’Appello di Potenza ha confermato la condanna degli imputati per il reato di tentata estorsione aggravata dall’uso del metodo mafioso. Nello specifico, era stato contestato agli imputati di aver minacciato le persone offese al fine di ottenere l’immediato adempimento di un’obbligazione, senza attendere l’esito della causa civile pendente. Sono ricorsi per Cassazione i difensori degli imputati, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, che secondo i ricorrenti avrebbe dovuto essere inquadrato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, data la sussistenza effettiva di un credito vantato da uno di loro, e considerato il fatto che il comportamento contestato, privo di efficacia coercitiva, era funzionale ad ottenere l’adempimento di quanto dovuto.


LA QUESTIONE In merito ai rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’Ordinanza in esame ha rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni di diritto: (i) se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell’elemento materiale ovvero dell’elemento psicologico; (ii) in caso si ritenga che l’elemento che li differenzia debba essere rinvenuto in quello psicologico, se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell’uno o nell’altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall’agente; (iii) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato comune o di “mano propria” e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile. L’ordinanza in esame ha innanzitutto precisato che il contrasto giurisprudenziale su tali profili risulta circoscritto ai soli casi in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria, essendo pacificamente inquadrate come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela. Quanto al primo profilo, Corte di Cassazione ha osservato che, secondo un primo orientamento, il discrimine tra le due fattispecie è da rinvenirsi nel livello di “gravità della violenza o della minaccia” che, se particolarmente elevato, giustifica l’inquadramento della condotta come estorsione (cfr. ex plurimis, Cass. Pen. n. 33712/2017); secondo un altro orientamento, invece, occorre guardare all’elemento soggettivo, ossia al profilo intenzionale, nel senso cioè che la fattispecie estorsiva è integrata unicamente quando la violenza o la minaccia abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, e ciò indipendentemente dal grado di gravità della violenza o della minaccia (ex plurimis, cfr Cass. Pen., n. 6968/2017). Nell’ambito di tale secondo orientamento, tuttavia, alcune pronunce riassegnano rilevanza decisiva all’intensità della violenza o della minaccia, laddove affermano che “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alle finalità dell’agente di far valere il preteso diritto e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi così il più grave reato di estorsione” (cfr Cass. Pen. n. 46288/2016). In altri termini, secondo questo sotto-orientamento, l’intensità dell’azione aggressiva può indicare l’esistenza del dolo di estorsione, la cui sussistenza non è automaticamente esclusa dalla dimostrazione dell’esistenza di una pretesa tutelabile per via giudiziaria sorretta dalla volontà dell’autore di soddisfare il suo credito. Quanto, infine, al terzo profilo (ossia quello relativo al tema del concorso di persone nel reato di cui all’art. 393 c.c.) la Corte ha ricordato che l’ultimo approdo della giurisprudenza sul punto è stato quello di ritenere che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra tra i delitti cd. propri esclusivi o di mano propria, che richiedono che la condotta tipica sia posta in essere dal titolare della posizione qualificata, ossia del diritto di credito giudiziariamente azionabile. Ne consegue che, se la condotta tipica è realizzata da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio azionato in sede civile, essa non potrà mai integrare il reato di cui all’art. 393 c.c., ma eventualmente altre fattispecie (cfr ex plurimis, sempre Cass. Pen., n. 46288/2016). Tuttavia, vi è altra giurisprudenza che, ponendo l’attenzione sull’elemento soggettivo, ha rilevato che – di regola – il terzo esattore è mosso da un interesse proprio non coincidente con quello del mandante e che, pertanto, ogniqualvolta l’azione violenta volta alla riscossione del credito sia posta in essere dal terzo, occorrerà verificare se questi abbia agito, o meno, in forza di un proprio interesse diverso e ulteriore da quello del titolare del diritto, configurandosi solo in tale ultimo caso il reato di estorsione (cfr Cass. Pen., n. 11453/2016). Ebbene, il Collegio ha dubitato della legittimità dell’inquadramento del reato di “ragion fattasi” tra quelli cd. propri esclusivi, dal momento che nel reato in esame non vi sono ragioni “ontologiche”, correlate alla natura dell’azione tipica, che impediscano che la condotta materiale descritta dalla norma sia realizzata da un soggetto diverso dal titolare del credito; si giustifica, pertanto, - anche alla luce della sopra ricordata giurisprudenza - la rimessione della questione al vaglio delle Sezioni Unite.


52 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page