MASSIMA
A fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all'autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell'ambito dell'estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima, mentre sarebbe configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo.
Integra gli estremi dell'estorsione aggravata dal c.d. "metodo mafioso", e non dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell'evocazione dell'appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l'estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto.
IL CASO
Al ricorrente è contestato, in concorso con altro soggetto, di aver costretto la persona offesa, mediante minacce consistite nel prospettargli ritorsioni o pericoli per la propria incolumità derivanti dall'appartenenza del concorrente ad una famiglia mafiosa, a consegnare allo stesso imputato la somma di € 5.000,00, così procurandosi l'ingiusto profitto della predetta somma con pari danno della persona offesa.
La difesa del ricorrente ritiene che erroneamente sarebbe stato configurato il reato di estorsione in assenza di qualunque condotta verbale o fisica dell’imputato nei confronti della persona offesa.
Secondo la difesa, i Giudici del merito avrebbero omesso di considerare che l’imputato vantava un credito lecito nei confronti della persona offesa e la mera presenza del secondo soggetto concorrente (convivente della madre del ricorrente da molti anni) nella mediazione tra i due non poteva considerarsi elemento idoneo ad integrare una condotta di tipo estorsivo. Inoltre, la difesa sottolinea che l’imputato nell'occasione non ha ricevuto neppure l'intera somma della quale era creditore, senza che, quindi, l'intermediazione del concorrente sia stata risolutiva.
A ciò si aggiunga che, sempre secondo la difesa del ricorrente, l'ordinanza impugnata avrebbe errato anche nel configurare la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1, non risultando la persona offesa in alcun modo intimidita ed essendo, come detto, la presenza del concorrente sul luogo ed al momento dei fatti giustificata dal legame "parentale" che lo lega al ricorrente.
LA QUESTIONE
Nell’esaminare la questione in punto di diritto, la Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo di ricorso.
In motivazione, la Corte avverte l’esigenza di riordinare gli elementi fattuali emersi nel corso dei precedenti giudizi, confermando l’esistenza di un credito vantato dall’imputato nei confronti della persona, il quale, non riuscendo a riscuoterlo, aveva quindi parlato della cosa con il concorrente nel reato, convivente della lui madre e personaggio di elevata caratura mafiosa, che gli offriva il proprio intervento.
Ciò posto, la Corte ritiene che vi sia una carenza motivazionale del provvedimento impugnato, che non consente di risolvere i punti nodali della stessa, fondamentali per una corretta qualificazione giuridica delle condotte descritte, soprattutto con riguardo al perseguimento di un "ingiusto profitto" da parte del ricorrente imputato, elemento necessario per la configurabilità del reato di estorsione.
La Suprema Corte, dunque, compie un focus sul reato dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., ed in particolare sulle differenze e i confini che intercorrono fra questo e il reato di estorsione ex art. 629 c.p..
Invero, dopo aver delineato la natura e i caratteri del reato ex art. 393 c.c., onde definire il discrimen fra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione, la Corte ribadisce il suo indirizzo giurisprudenziale secondo cui: “A fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all'autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell'ambito dell'estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima, mentre sarebbe configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo.
Integra gli estremi dell'estorsione aggravata dal c.d. "metodo mafioso", e non dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell'evocazione dell'appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l'estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto.”
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte ritiene fondato il motivo di ricorso; pertanto, applicando gli annunciati principi di diritto al caso di specie, ritiene che l'incontro fra i tre soggetti sia svolto nella massima tranquillità. A suffragio di tale conclusione avvalora, altresì, la circostanza secondo cui non sono emerse minacce o violenze nei confronti della persona offesa.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale, Sezione per il riesame delle misure coercitive.
Segnalazione a cura di Vittorio La Battaglia.
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