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Diritto Penale

ESTORSIONE - AGGRAVANTE METODO MAFIOSO - Cass. pen., sez. VI, sentenza 20 ottobre 2020, n. 28965

LA MASSIMA

“Non può ritenersi sufficiente ad integrare il delitto di estorsione l'autosuggestione delle presunte persone offese che, pur in assenza della benché minima induzione, si autodeterminano di propria iniziativa per il timore di ritorsioni, neppure paventate, ma solo immaginate nella loro mente”.


IL CASO

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado con la quale i ricorrenti sono stati condannati alla pena ritenuta di giustizia per il reato di concorso in estorsione aggravata anche dal metodo mafioso ex artt. 110, 81 cpv. e 629 c.p., in relazione all'art. 628 c.p., comma 3, n. 1 e 7 L. n. 203 del 1991. Nel caso di specie, gli imputati, nel breve lasso temporale di assunzione presso una società deputata alla raccolta e alla gestione dei rifiuti, si astenevano ripetutamente dallo svolgimento dell’attività lavorativa, senza essere neppure redarguiti dai relativi superiori che, al contrario, si rendevano disponibili nei loro confronti per trasportarli a bordo dell’auto di servizio al fine di soddisfare incombenze di natura privata, in ragione della loro notoria appartenenza a cosche mafiose locali.

Avverso la decisione di secondo grado, gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi di doglianza, tra i quali rileva in questa sede l’impossibilità di configurare il delitto di estorsione e l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso ex art. 7 L. 203 del 1991.


LA QUESTIONE

La Suprema Corte è chiamata a chiarire la configurabilità della fattispecie di estorsione, in particolare nella sua forma c.d. ambientale. Nello specifico, la Corte di legittimità, richiamando dei precedenti giurisprudenziali sul punto, ribadisce che in materia di estorsione ambientale rilevano le condotte di soggetti notoriamente inseriti in pericolosi gruppi criminali, percepibili dagli abitanti del luogo come espressione della forza intimidatrice dell’associazione di appartenenza, idonea ad incutere timore e a coartare la volontà delle vittime. Si ritiene, pertanto, che Corte di Appello non abbia motivato puntualmente in riferimento alle condotte degli imputati e al collegamento diretto con la loro fama criminale. Invero, difettano accertamenti approfonditi in ordine al ruolo eventualmente ricoperto da entrambi i ricorrenti nell’associazione mafiosa di riferimento, la loro contiguità con gli esponenti di vertice della medesima, la natura dei loro precedenti penali, posto che la sentenza di condanna poggia unicamente su un generico collegamento tra i ricorrenti e il gruppo criminale locale.


LA SOLUZIONE

Ai fini della configurabilità del delitto di estorsione ex art. 629 c.p. è sempre richiesto un nucleo minimo di condotta interpretabile come minaccia e obiettivamente riconoscibile come tale dai consociati. Nel caso specifico, la Suprema Corte rileva come le condotte poste in essere dagli imputati non siano riconducibili ai crismi della violenza e della minaccia, in quanto il comportamento degli ispettori non risulta viziato da forme di coartazione della volontà, essendosi questi ultimi adoperati di propria iniziativa per il timore di eventuali ritorsioni, in concreto mai paventate dai ricorrenti. In merito all’impiego del metodo mafioso, poi, la Suprema Corte evidenzia come il dato della notoria appartenenza dei ricorrenti ad una temuta cosca mafiosa locale, non sia sufficiente, di per sé, al riconoscimento dell’aggravante in parola, in mancanza di ulteriori precisazioni e riscontri tali da dimostrare in maniera persuasiva la sussistenza del vincolo di coartazione nei confronti delle persone offese. Sulla scorta di tali argomentazioni e considerazioni, la Sezione VI della Corte di Cassazione accoglie i ricorsi degli imputati ed annulla con rinvio ad altra sezione la sentenza impugnata.


Segnalazione a cura di Gabriella Venezia





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