LA MASSIMA
“Non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad un illecito disciplinare considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., sub specie di esercizio del diritto di critica, anche in forma putativa, laddove l’agente abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l'onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti”.
IL CASO
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte trae origine dalla decisione con cui il Giudice di pace affermava la responsabilità per il delitto di diffamazione, nei confronti dell’imputato, riguardo al contenuto di un esposto, da questi predisposto e diretto al Consiglio di un ordine professionale, dal quale emergevano delle accuse ritenute diffamanti e denigratorie nei confronti di un professionista.
In particolare, la difesa dell’imputato ricorreva affidando le proprie censure a diversi motivi di ricorso tra cui quello (nello specifico, il primo motivo di ricorso) della mancanza di motivazione della sentenza in riferimento alle deduzioni difensive, finalizzate alla delibazione dell'esimente del legittimo esercizio del diritto di critica, anche nella forma putativa, a fronte dell’analitica allegazione, per ogni espressione utilizzata dall’imputato e ritenuta diffamatoria, dei fatti oggetto di denuncia al Consiglio dell’ordine contenuti nell’esposto a quest’ultimo indirizzato. La difesa si doleva del fatto che il Giudice di merito avesse completamente omesso la disamina delle suddette deduzioni, argomentando la sentenza in modo apodittico e senza verificare, in concreto, continenza e veridicità di quanto prospettato.
LA QUESTIONE
La Suprema Corte è chiamata ad occuparsi della possibilità di valutare, nella fattispecie concreta, la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. o della causa di non punibilità ex art. 598 c.p., ricorrendo l’esimente del diritto di critica quando i fatti esposti siano veri o quando l’accusatore, ancorché erroneamente, sia convinto della loro veridicità.
A tal proposito, la V sezione della Corte di Cassazione si è soffermata sui requisiti di continenza e veridicità, anche nella forma putativa, necessari ai fini dell’esercizio legittimo del diritto di critica tendente a giustificare la condotta integrante il delitto di diffamazione.
LA SOLUZIONE
Il primo (assorbente) motivo di ricorso, con il quale la difesa deduce l’assenza di adeguata motivazione della sentenza impugnata, riguardo alla possibilità di sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p., è ritenuto fondato.
Ed invero, la V Sezione della Corte di Cassazione ha evidenziato, rispetto alla sentenza del giudice di pace oggetto di ricorso, profili di carenza motivazionale con riferimento all’esclusione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica.
Dunque, i giudici hanno sottolineato che, in tema di diffamazione realizzata mediante esposti indirizzati ad organi di disciplina o, in genere, mediante osservazioni finalizzate all'esercizio di poteri di controllo e verifica, integrerebbe il reato, sotto il profilo materiale, la condotta del soggetto che invii, scientemente, comunicazioni gratuitamente diffamatorie che si determinino propulsive di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo o disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dal soggetto a cui è riferito l’esposto o l’osservazione dal contenuto diffamatorio.
Tuttavia, è proprio la destinazione funzionale dell’esposto all’attivazione dei poteri di accertamento e disciplinari dell'organismo destinatario che impone la necessaria valutazione della possibile sussistenza della causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. o della causa di non punibilità ex art. 598 c.p., ricorrendo l’esimente del diritto di critica quando i fatti esposti siano veri o quando l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità. Si discorre, in questo secondo caso, di accertamento della verità putativa.
Quindi, la Corte ha ritenuto necessario evidenziare che nella sentenza del giudice di pace non erano stati presi in considerazione i criteri di continenza e veridicità, anche putativa, al fine di valutare, concretamente, la sussistenza dell’esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p.
Quanto al requisito della continenza, la Cassazione ha affermato che è necessario verificare se i toni utilizzati dall’agente, seppur aspri, polemici e coloriti, siano pertinenti al tema di discussione, proporzionati e funzionali alla prospettazione di una violazione, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.
Invece, al fine della sussistenza del requisito della verità dei fatti rappresentati, la Suprema Corte ha dichiarato che la valutazione dell’esimente deve essere effettuata ex ante ed in concreto. Pertanto, il giudice deve valutare se i fatti corrispondo a verità o se, nell’accertamento della dimensione soggettiva del dichiarante, quest’ultimo abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione dei fatti nella convinzione, anche erronea, che questi rispondano al vero (valutazione della c.d. verità putativa).
Sotto il profilo della pertinenza espressiva, secondo quanto delineato dalla V Sezione della Corte, il giudice di merito non ha evidenziato come il requisito della continenza comporta una forma espositiva funzionale alla finalità di disapprovazione che non deve sfociare nella gratuita ed immotivata aggressione della reputazione altrui. Invero, tale requisito non può ritenersi superato per il solo utilizzo di termini che, pur avendo accezioni offensive, hanno anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del contesto in cui il termine viene utilizzato, rispetto al quale assume rilevanza il profilo soggettivo del dichiarante e la sua capacità espressiva in riferimento al livello culturale e sociale.
Conclusivamente, dunque, la Corte, allineandosi all’orientamento di legittimità consolidatosi in subiecta materia, osserva che non integra delitto di diffamazione la condotta di quel soggetto che invia un esposto alla competente autorità al fine di ottenere un intervento disciplinare poiché, in tal caso, ricorre la causa di giustificazione ex art. 51 c.p. – nei termini dell’esercizio del diritto di critica – se l’agente ha esercitato tale diritto, anche in forma putativa, assolvendo l'onere di deduzione dei fatti contestati nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti.
La Corte di Cassazione, esaminato il primo motivo di ricorso assorbente delle ulteriori censure, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame al Giudice di pace.
Segnalazione a cura di Valentina Marrone
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