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Diritto Penale

DIFFAMAZIONE - CONCORSO DI PERSONE - Cass. V Sez., 24 febbraio 2021, n. 7220

LA MASSIMA

“In tema di diffamazione, l’amministratore di un sito internet non è responsabile ai sensi dell’art. 57 cod. pen., in quanto tale norma è applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook), sempre che non sussistano elementi che denotino la compartecipazione dell’amministrazione all’attività diffamatoria”



IL CASO

Il caso sottoposto ad esame riguarda l’esatta configurazione giuridica dell’editto accusatorio nell’ipotesi in cui a rendersi responsabile del delitto di diffamazione sia il titolare di un semplice sito internet d’informazione. In particolare, su quest’ultimo veniva pubblicato un articolo offensivo della reputazione di un ufficiale di P.G., etichettato come un “criminale in divisa” ovvero una “mela marcia”, per essere stato imputato in apposito procedimento penale, ove successivamente ne usciva assolto, del delitto di lesioni consumate ai danni di diversi tifosi di una nota squadra di calcio professionistica. Tale articolo, successivamente, veniva ripreso e condiviso sulla rete da altri siti internet, così derivandone un’inevitabile pregiudizio alla reputazione del pubblico ufficiale interessato. Il delitto contestato alla titolare del sito internet era quello di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, commi 2 e 3 cod. pen., ma la difesa contestava siffatta imputazione argomentando, con i rispettivi motivi di ricorso, sulla violazione del fondamentale principio processualpenalistico della correlazione tra imputazione e sentenza, atteso che nel caso di specie la condotta dell’imputata avrebbe dovuto sostanziarsi più che altro in un omesso controllo, con ciò derivandone eventualmente la violazione dell’art. 57 cod. pen. ovvero del combinato disposto degli artt. 40, II comma cod. pen. e 595 cod. pen.



LA QUESTIONE

La questione affrontata dai giudici di legittimità attiene più che altro alla individuazione della effettiva violazione, da parte del Tribunale locale e Corte territoriale, del principio sancito dall’art. 521 c.p.p. Invero, nel caso di specie soltanto apparentemente sarebbe applicabile l’art. 57 c.p. così come codificato in termini di omesso controllo del titolare di una testata giornalistica in merito ad articoli, offensivi della reputazione altrui, pubblicati da terzi su quest’ultima.



LA SOLUZIONE

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto corretta l’imputazione così come cristallizzata nelle sentenze di condanna di merito, rilevando l’insussistenza della violazione dell’art. 521 c.p.p.

In particolare, facendo leva su un noto precedente della V Sez. si è precisato che il blogger, a differenza del titolare di una testata giornalistica telematica, risponde, in merito ad articoli diffamatori pubblicati sul sito internet da lui gestito, ai sensi dell’art. 595, comma III cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Tale condotta, infatti, equivale alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione e consente l’ulteriore diffusione dei commenti.

Tuttavia, seppur nel caso di specie non ricorre la fattispecie dell’ “omesso controllo”, dovrà pur sempre trovare applicazione la comune disciplina del concorso di persone nel reato.

In altri termini, se l’art. 57 cod. pen. è applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero (es. blog), allo stesso tempo dovranno comunque sussistere elementi di fatto atti a dimostrare la compartecipazione del titolare del sito internet all’attività diffamatoria.

Nel caso di specie, i giudici di merito avevano correttamente appurato che l’imputata, non solo aveva partecipato attivamente alla raccolta di tutte le informazioni necessarie per redigere l’articolo diffamatorio, ma allo stesso tempo faceva parte del collettivo politico da cui era stato concepito, oltre ad averne rivendicato, anche in dibattimento, il contenuto, affermando di condividerlo interamente.

Ne derivava la corretta sussunzione del fatto sotto la previsione dell’art. 595 cod. pen. nella forma aggravata con contestuale rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Segnalazione a cura di Michele Gesualdi




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