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Diritto Penale

DIFFAMAZIONE - Cass. Pen., Sez. V, 02 gennaio 2020, n. 8

MASSIMA “Le notizie e le valutazioni esternate con espressioni dubitative o interrogative, se non corrispondenti al vero, possono ledere l'altrui reputazione quando le frasi pronunciate nel contesto della comunicazione, in quanto ambigue, allusive, coinvolgenti e suggestive, ovvero caratterizzate da interrogativi retorici, siano idonee ad ingenerare nella mente dei destinatari il convincimento dell'effettiva rispondenza a verità del fatto formalmente solo adombrato”.


IL CASO La Corte di Cassazione, con la sentenza in epigrafe, chiarisce come l’utilizzo di espressioni ipotetiche e dubitative nella narrazione giornalistica di una vicenda non è sufficiente a escludere il reato di diffamazione a mezzo stampa se tali frasi, tenuto conto del contesto in cui sono pronunciate e della loro carica allusiva e suggestiva, siano tali a indurre nel lettore medio l'idea che tale fatto sia realmente accaduto. La vicenda in oggetto trae origine dal ricorso dell’imputato con il quale si chiedeva la riforma della sentenza della Corte d’Appello di Trieste che, confermando la sentenza del Giudice di prime cure, lo aveva riconosciuto colpevole del reato di diffamazione a mezzo stampa, in qualità di direttore responsabile di un periodico locale. In particolare, nell’articolo in questione si riportava una notizia, ricevuta in via confidenziale, secondo cui la parte offesa aveva raggiunto un accordo con un politico locale finalizzato a presentare un emendamento alla legge di stabilità per sdemanializzare a sorpresa un’estesa area portuale. L’articolo si concludeva con la seguente riflessione: “Se la notizia risultasse fondata si tratterebbe (…) di speculazione illecita attuata con trasversalità politiche che lasciano ipotizzare un sostrato di corruzioni che attraversa partiti politici anche contrapposti» Secondo la ricostruzione della difesa, è di tutta evidenzia che l’articolo in oggetto non attribuiva alcuna utilità corruttiva alla parte offesa, limitandosi a criticare le scelte politiche compiute da quest’ultima. A ciò si aggiunga che la riportata notizia dell’accordo raggiunto con il governatore locale – mai formalmente smentita dalla parte offesa – veniva confermata da un diverso quotidiano locale nonché da alcuni atti parlamentari, pubblicati in Gazzetta Ufficiale. In questo modo, la difesa afferma la veridicità del processo di privatizzazione dell’area portuale minimizzando il danno patito dalla parte offesa e ritenendo che la querela, la quale aveva dato corso al procedimento in oggetto, fosse stata presentata al solo fine di bloccare l’inchiesta giornalistica condotta dalla testata diretta dal ricorrente.


LA QUESTIONE Nel rigettare il ricorso proposto dall’imputato, la Suprema Corte conferma le motivazione della Corte d’Appello di Trieste ritenendo sufficiente, ai fini della configurazione del reato di diffamazione a mezzo stampa, la narrazione di un fatto di oggettiva gravità, poiché implicante profili di responsabilità penale, in assenza di elementi obbiettivi di riscontro. Secondo la Corte, proprio perché non confermata, tale notizia non poteva assolvere allo scopo di informare il lettore di un fatto realmente accaduto ma si limitava a screditare in maniera gratuita la parte offesa, sottintendendo la responsabilità penale dell’offeso per il reato di corruzione. Sotto tale profilo, la Suprema Corte ritiene condivisibile la motivazione della Corte d’Appello secondo cui la veridicità del fatto affermato o quantomeno la sua diligente verifica non può essere affidata alla vaga evocazione di fonti confidenziali. Seguendo tale ricostruzione, la critica alle scelte politico-istituzionali mosse dal ricorrente nei confronti della persona offesa, per quanto evidente, assume valenza secondaria. Segnatamente, in base alle motivazioni della Corte di Legittimità, “l'esposizione della notizia si fonda su di un ragionamento apparentemente ipotetico e dubitativo nelle forme, ma dotato di un'indiscutibile direzione ed attitudine offensiva nei contenuti”. La veridicità del processo di privatizzazione della costa, provata e non valorizzata - secondo la ricostruzione difensiva - dai Giudici della Corte d’Appello non è decisiva a fini dell’accoglimento del ricorso per due ragioni. In primo luogo, il ricorrente lamenta nei confronti della sentenza impugnata il vizio di contraddittorietà della sentenza. Tale vizio, secondo l’insegnamento costante della giurisprudenza di legittimità, può essere dedotto soltanto nel caso in cui il Giudice utilizzi un’informazione inesistente o ometta la valutazione di una prova e sempre che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nella motivazione. A ciò si aggiunga che, sempre per orientamento costante della Suprema Corte, tale vizio deve essere eccepito indicando in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate. Nella fattispecie in esame, la difesa utilizza in maniera errata il motivo di ricorso in oggetto, limitandosi a proporre una diversa ricostruzione dei fatti e senza denunciare un’erronea lettura del materiale probatorio da parte del Giudice. In secondo luogo, tralasciando la suddetta omissione difensiva, la Corte ritiene non censurabile la motivazione della Corte d’Appello di Trieste in quanto la veridicità del fatto riportato non è emersa alla luce delle risultanze processuali. Tale mancato accertamento è incompatibile con l’applicazione della scriminante de legittimo esercizio del diritto di critica. Ai fini dell’applicazione della scriminante in oggetto, costituisce presupposto imprescindibile l’accertamento del fatto storico affermato e posto alla base della critica esercitata. Tale principio, condiviso dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria, trova applicazione anche in caso di critica politica, contraddistinta da toni generalmente più aspri, in relazione alla quale la carica offensiva delle frasi pronunciate nei confronti di un altro soggetto viene valutata con minore rigore. Fatta tale premessa, si riscontra che nella riflessione finale, contenuta nell’articolo del quotidiano oggetto della vicenda, lo scrittore ipotizza una responsabilità penale per il reato di corruzione in capo ai soggetti coinvolti dal presunto scandalo. Attraverso l’utilizzo di tale termine, lo scrittore intendeva senza dubbio accostare il soggetto su cui era incentrato l’articolo a un’attività illecita. Tale accostamento, prescindendo dalla critica politica rivolta alla parte offesa e dall’utilizzo di espressive dubitative dalle quali si evince chiaramente che la notizia dell’accordo riservato raggiunto con un altro politico era tutt’altro che confermata, è di per sé sufficiente a ledere la reputazione del soggetto interessato. Tale conclusione è avvalorata da un orientamento della Corte di Cassazione secondo cui l’utilizzo di espressioni interrogative e non corrispondenti al vero è certamente idoneo a ledere l'altrui reputazione quando le stesse frasi, tenuto conto del contesto della comunicazione, siano sufficienti a ingenerare nella mente dei destinatari il convincimento dell'effettiva rispondenza a verità del fatto formalmente solo adombrato. D’altra parte, l’attribuzione a un soggetto di un’attività illecita, anche nel caso di attribuzioni generiche o in riferimento o fatti non meglio specificati, è da sempre stata ritenuta dalla Corte di legittimità una condotta lesiva dell’altrui reputazione.

LA SOLUZIONE Alla luce di siffatte premesse e argomentazioni, appurata la non veridicità del fatto narrato e la natura diffamatoria della condotta posta in essere dal ricorrente, la Suprema Corte rigetta il motivo di doglianza in esame negando l’applicabilità della scriminante del legittimo esercizio del diritto di critica.


Segnalazione a cura di Vincenzo Minunno


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