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Diritto Penale

DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA - DIRITTO DI CRITICA - Cass. Sez. V 16 Dicembre 2020, sentenza n. 36013

LA MASSIMA

“È configurabile l'esimente del diritto di critica quando lo scritto, pur avendo una minima valenza offensiva, sia caratterizzato da un nucleo centrale di fatti vero, da un linguaggio consono ed il giudizio valutativo, pur espresso con toni polemici, trovi una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere”.


IL CASO

Tre soggetti, di cui due giornalisti, con tre diversi capi di imputazione venivano accusati di diffamazione a mezzo stampa perpetrata ai danni di un pubblico ministero, avverso il quale venivano mosse critiche afferenti al proprio operato, per mezzo di più articoli pubblicati su un giornale periodico.

In particolare, in due articoli di giornale, si accusava il p.m. di aver piegato l'esercizio della funzione pubblica ad un mero interesse personale, insinuando che egli avesse posto in essere un'impugnazione futile, mirata a difendere una persona legata da rapporto di amicizia.

La Corte territoriale confermava la condanna già erogata in primo grado per il suddetto fatto, in quanto fondato su circostanze non vere.

Inoltre, in un successivo articolo redatto, lo stesso p.m. veniva incolpato di aver fatto arrestare una persona innocente.

Anche in questo caso, la Corte territoriale confermava la condanna di primo grado, ritenendo eccessivi i toni utilizzati, pur essendo il nucleo fattuale astrattamente vero.

Pertanto, i condannati ricorrevano per Cassazione adducendo la falsa applicazione dell’art. 595 c.p. e richiedendo una congrua applicazione della scriminante di cui all’art. 51 c.p., argomentando circa la veridicità dei fatti riportati negli articoli giornalistici ed invocando il diritto di cronaca e di critica, tipici del “giornalismo d’inchiesta”, ampiamente tutelato dall’ordinamento.


LA QUESTIONE

La giurisprudenza di legittimità offre un’ampia letteratura circa l’applicabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p., in relazione all’esercizio del diritto di critica.

Va quindi rammentata la natura giuridica del diritto di critica, che sussiste ove il fatto riportato sia vero (o ritenuto, incolpevolmente, vero, dal soggetto agente), sia di interesse pubblico e rispetti i crismi della “continenza”, da intendersi come utilizzo misurato di un linguaggio non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere.

Il diritto di critica si sostanzia in un giudizio valutativo che, postulando l'esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza, ad avviso della giurisprudenza prevalente, andrebbe esclusa la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e funzionali all'opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi che si ritengono compromessi.

Invece, il diritto di cronaca si staglia rispetto al diritto di critica in virtù di una sottile, ma sostanziale, differenza.

Infatti, nell'esercizio del diritto di critica il rispetto della verità del fatto assume un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.


LA SOLUZIONE

La Suprema Corte ha confermato la sentenza di condanna in relazione ai primi due articoli nei quali la critica si dispiegava in un attacco diretto alla professionalità del pm, accusato (ingiustamente) di aver favorito una persona amica.

Tale circostanza è stata ritenuta punibile, in conformità con le sentenze di merito, poiché fondata su un nucleo fattuale non vero, oltre che per gli eccessi linguistici sfociati in gratuiti attacchi alla persona del magistrato, fondati su congetture che non avevano alcun riscontro nella realtà, nonché su circostanze delle quali il giornalista non aveva diligentemente accertato la veridicità, attestandosi così l’inapplicabilità della scriminante del diritto di critica.

Invece, è stata ritenuta applicabile la ridetta scriminante di cui all’art. 51 c.p., in difformità alle sentenze di merito, relativamente all’ultimo dei tre articoli di giornale, nel quale lo stesso p.m. era stato accusato di aver fatto incarcerare una persona innocente.

In tal senso, il collegio evidenzia che l’arrestato era stato celermente scarcerato proprio per assenza di circostanze tali da giustificarne la limitazione della libertà.

Dunque, la Suprema Corte ha ritenuto appurato il presupposto della veridicità del nucleo fattuale ed ha avallato la sussistenza dell’interesse pubblico in relazione all’amministrazione della giustizia.

A differenza delle sentenze di merito, il requisito della “continenza” è stato ritenuto sussistente dai giudici di legittimità, i quali hanno rimarcato che la critica è la manifestazione di un’opinione e di conseguenza è irragionevole censurarla per assenza di “obiettività”, seppur presenti una minima valenza offensiva.

Dunque, con riguardo alla condotta perpetrata per mezzo di quest’ultimo articolo giornalistico, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato.


Segnalazione a cura di Nicolò Pignalosa




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