LA MASSIMA
“Il tradizionale criterio di bilanciamento tra la libertà di stampa e la tutela della reputazione individuale, raggiunto mediante l’elaborazione dei limiti dell’interesse pubblico, della verità e della continenza, è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce dei principi elaborati dalla Corte EDU.
È quindi necessario rimodulare il giudizio di bilanciamento, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, con le ragioni di tutela della reputazione individuale.
I giudici della Corte costituzionale, tuttavia, sottolineano che tale rimodulazione spetti in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado di assicurare il giusto contemperamento dei diversi interessi coinvolti”.
IL CASO
Con due ordinanze di rimessione di analogo contenuto, due Tribunali ordinari sollevano questione di legittimità costituzionale degli artt. 595, comma 3, c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 per violazione degli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 10 CEDU.
La vicenda riguarda la responsabilità penale di due soggetti, l’uno imputato del delitto di diffamazione a mezzo stampa per aver attribuito alle persone offese un fatto determinato non corrispondente al vero e l’altro imputato in quanto direttore responsabile del giornale per omesso controllo.
Entrambi i giudici rimettenti sottolineano che, alla luce del consolidato orientamento della Corte EDU in relazione all’art. 10 CEDU, la previsione anche solo in astratto della pena detentiva per i delitti di diffamazione a mezzo stampa appare sproporzionata ed eccessiva, salvi casi eccezionali di grave lesione dei diritti fondamentali.
LA QUESTIONE
L’ordinanza esamina la questione della compatibilità con gli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 10 CEDU, degli artt. 595 c.p. e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47. Le norme da ultimo richiamate prevedono, in particolare, la pena della reclusione, alternativamente o cumulativamente rispetto alla multa, a carico del responsabile del reato di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
I reati in esame hanno da sempre suscitato grande dibattito in dottrina e giurisprudenza in quanto coinvolgono interessi contrapposti, tutti meritevoli di tutela in quanto richiamati nella Carta costituzionale.
Da un lato, viene in considerazione il fondamentale principio della libertà di manifestazione del pensiero, che trova nella libertà di stampa una delle sue più rilevanti espressioni, anche alla luce dell’interesse della collettività ad essere correttamente informata.
Dall’altro, si pone il diritto di ogni consociato a conservare intatta la propria reputazione a fronte della pubblicazione di notizie false, soprattutto nell’attuale contesto storico-sociale caratterizzato dalla rapidissima e spesso incontrollabile diffusione di informazioni dovuta allo sviluppo della tecnologia informatica.
Compito dell’interprete è quello di effettuare un corretto bilanciamento di interessi al fine di individuare il punto di equilibrio tra i diversi beni giuridici implicati.
Tradizionalmente, il giudizio di bilanciamento è imperniato su tre limiti travalicati i quali il giornalista che offenda la reputazione altrui è da ritenersi penalmente responsabile e punibile con la pena detentiva, alternativa o cumulata alla pena pecuniaria.
Tali limiti sono stati individuati nell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, nella verità della stessa e nella continenza formale.
Sulla questione in esame, tuttavia, si è più volte pronunciata anche la giurisprudenza della Corte EDU, a partire dalla nota sentenza della Grande camera del 17 dicembre 2004, Cumpn e Mazre contro Romania. In tale pronuncia la Corte ha affermato che il dovere imposto al legislatore, ai sensi dell’art. 8 CEDU, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge l’adeguata tutela della reputazione dei consociati, non può tradursi nella previsione di fattispecie incriminatrici che abbiano l’effetto di dissuadere indebitamente i media dallo svolgimento del loro ruolo informativo nei confronti dell’opinione pubblica.
La previsione di una sanzione eccessivamente e sproporzionatamente severa qual è quella detentiva, ad avviso dei giudici della Corte EDU, suscita forte timore nei giornalisti, tale da dissuaderli dall’esercizio della loro libertà di espressione.
Ciò, in ultima analisi, finisce col danneggiare l’interesse dell’opinione ad essere informata in modo completo e costante, al fine di poter maturare propri legittimi convincimenti personali anche e soprattutto in ordine a personaggi di notevole caratura e impegno pubblico.
La pena detentiva, a fronte della commissione di un reato a mezzo stampa, secondo la Corte EDU è compatibile con l’art. 10 CEDU solo in circostanze eccezionali, ossia quando risultino seriamente offesi diritti fondamentali della persona, come avviene nel caso di diffusione di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
I principi espressi dalla richiamata sentenza della Corte EDU sono stati ribaditi dalla giurisprudenza successiva, anche in due pronunce nei confronti dello Stato italiano, nei casi Belpietro contro Italia del 2013 e Sallusti contro Italia del 2019.
Alla luce del quadro giurisprudenziale richiamato, alla Corte costituzionale è affidato il compito di verificare la perdurante compatibilità dei limiti tradizionalmente individuati all’esercizio della libertà di stampa con i principi costituzionali e con l’art. 10 CEDU.
LA SOLUZIONE
I giudici costituzionali, dopo aver richiamato i precedenti della Corte EDU, sottolineano la necessità e urgenza di una complessiva rimeditazione, nell’ambito dell’attività giornalistica, del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale.
La libertà di manifestazione del pensiero, infatti, costituisce un diritto fondamentale coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione e rappresenta uno dei cardini di democrazia nell’ordinamento.
La libertà di stampa, che della libertà di manifestazione del pensiero costituisce una delle più rilevanti espressioni, svolge un ruolo fondamentale per il funzionamento del sistema democratico, nell’ambito del quale al diritto del giornalista di informare corrisponde il diritto dei cittadini a ricevere le informazioni necessarie per compiere consapevolmente le proprie personali valutazioni avendo presenti punti di vista e orientamenti culturali, politici, religiosi differenti.
Se, dunque, l’attività giornalistica deve essere certamente salvaguardata, è anche meritevole di tutela il diritto delle persone alla propria reputazione, sancito dall’art. 2, Cost. e dall’art. 8 CEDU.
La Corte costituzionale afferma che il tradizionale criterio di bilanciamento tra i suddetti opposti interessi, raggiunto mediante l’elaborazione dei limiti dell’interesse pubblico, della verità e della continenza, è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce dei principi elaborati dalla Corte EDU.
È necessario, dunque, rimodulare il giudizio di bilanciamento, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, con le ragioni di tutela della reputazione individuale.
I giudici della Corte costituzionale, tuttavia, sottolineano che tale rimodulazione spetti in primo luogo al legislatore, «sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie» in grado di assicurare il giusto contemperamento dei diversi interessi coinvolti.
La Corte sollecita un intervento del legislatore volto a «disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati, ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare».
Onde evitare che un intervento diretto sulla disciplina oggetto di censura generi lacune di tutela effettiva per i controinteressi in gioco, la Corte costituzionale, facendo ricorso a un metodo già sperimentato di recente nel caso Cappato, ha scelto di non intervenire direttamente sugli artt. 595, c.p. e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47 con una pronuncia di incostituzionalità, ma di fare appello al principio di leale collaborazione istituzionale consentendo al legislatore di approvare, entro il 22 giugno 2021, una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali.
Segnalazione a cura di Veronica Proietti
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