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Diritto Penale

DANNEGGIAMENTO - CIRCOSTANZE - Cass. pen., Sez. V, 9 novembre 2020, n. 31270

MASSIMA

“L'attenuante della provocazione, pur non richiedendo un particolare legame temporale di derivazione immediata tra azione ingiusta subita e reazione, tuttavia, anche nelle forme della provocazione cd. "per accumulo" (in cui, appunto, il fattore tempo scolora nella condizione di accumulo di rancore determinato dalla reiterazione di comportamenti ingiusti) richiede la prova dell'esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l'esplosione, in relazione ed occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo, la cui esistenza è, in ogni caso, da escludersi, nonostante la presenza di fatti apparentemente ingiusti della vittima, allorché la reazione appaia sotto ogni profilo eccessiva e talmente inadeguata rispetto all'ultimo episodio dal quale trae origine tanto da fare escludere la sussistenza di un nesso causale tra offesa, sia pure potenziata dall'accumulo, e reazione.”


IL CASO

Il caso sottoposto al vaglio della Quinta Sezione della Corte di Cassazione trae origine dalla condanna dei due imputati per il reato di danneggiamento della autovettura della persona offesa, utilizzando anche un bastone per colpire la vittima e il suo veicolo, nonché in relazione al reato di minaccia, tutti commessi in continuazione tra loro, esclusa l'aggravante dei futili motivi e ritenuta quella della recidiva reiterata solo per uno di essi. Entrambi gli imputati erano stati assolti, invece, dal reato di ingiuria contestualmente commesso ai danni della vittima in quanto fatto non più previsto dalla legge come reato.

Tale pronuncia era stata oggetto di impugnazione da parte dei due imputati i quali avevano lamentato con un primo motivo la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. per difetto di correlazione tra accusa e sentenza ed illogicità della motivazione avuto riguardo alla contestazione di danneggiamento.

Nello specifico, la difesa dell’imputato aveva eccepito l'irrilevanza penale della condotta, non contestata come aggravata, ma ritenuta dal giudice di primo grado implicitamente circostanziata dall'esposizione alla pubblica fede dell'automobile danneggiata dal ricorrente, parcheggiata su strada pubblica, in violazione del principio di correlazione fra imputazione e sentenza dettato dall'art. 521 c.p.p., sul presupposto erroneo, altresì, che sia sufficiente a garantire il rispetto della citata disposizione il fatto che sulla circostanza aggravante predetta gli appellanti abbiano comunque avuto modo di "esplicare ogni difesa".

Con secondo motivo gli imputati avevano lamentato la violazione di legge e vizio di illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, nonché travisamento della prova, in ordine al diniego della circostanza attenuante della provocazione.

Secondo la ricostruzione dei fatti fornita dalla difesa, infatti, né il fattore tempo, inteso come necessaria immediatezza della reazione, né la proporzionalità della reazione rispetto alla precedente azione provocatoria possono rilevare ai fini della configurabilità dell'attenuante, essendo richiesta soltanto la derivazione causale tra azione e reazione. Peraltro, si era dedotto anche un travisamento della prova dichiarativa non essendo possibile desumere la sussistenza di un consistente periodo di tempo tra l'aggressione e la lite precedente.

Terzo argomento addotto dalla difesa era quello della violazione di legge e del vizio di illogicità della motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, non essendo il generico rinvio operato dalla sentenza d'appello alle ragioni di mancata concessione delle attenuanti indicate sufficiente ad adempiere agli oneri motivazionali corrispondenti allo specifico motivo d'impugnazione proposto, in cui, tra l'altro, si metteva in risalto il comportamento di resipiscenza e consapevolezza di quanto commesso da parte di uno degli imputati, il quale aveva ammesso le sue responsabilità.

Infine, con un quarto motivo la difesa aveva lamentato il vizio di violazione di legge e di manifesta

illogicità della motivazione, oltre che travisamento della prova con riferimento all'ascrivibilità ad uno degli imputati delle lesioni cagionate al terzo.

La difesa aveva eccepito la configurabilità di un'ipotesi di eccesso colposo in legittima difesa da parte dell'imputato, esclusa dai giudici di secondo grado sul presupposto erroneo che la testimonianza dei due gestori del chiosco di friggitoria teatro dei reati, insieme alle dichiarazioni della persona offesa, provassero univocamente la partecipazione di entrambi gli imputati all'azione di aggressione violenta, mentre, invece, uno degli imputati aveva agito soltanto in legittima difesa del fratello al fine di soccorrerlo dall'aggressione che a suo giudizio stava subendo.


LA QUESTIONE

La pronuncia in commento nell’affrontare il caso sottoposto al suo esame ribadisce l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla fattispecie incriminatrice di danneggiamento così come modificata dal d.lgs. 7/2016, in particolare sulla prima delle ipotesi aggravate che fondano la punibilità della condotta, specificando come, anche in seguito alla riformulazione normativa operata dalla citata novella legislativa, il reato di danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia, nel testo riformulato, sia configurabile anche nel caso in cui non sussista un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l'azione di danneggiamento, dovendo ravvisare la ragione dell'incriminazione nella maggiore pericolosità manifestata dall'agente nell’esecuzione del reato.

Con riferimento alla sussistenza dell'aggravante della violenza alla persona, commessa nella vicenda concreta in un unico contesto temporale e causale, dando così luogo al reato di lesioni aggravate e, appunto, alla circostanza determinante la punibilità del danneggiamento, viene ricordato un recente arresto delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 18 aprile 2019, n. 24906, meglio conosciuta come Sentenza Sorge), il quale, risolvendo un contrasto risalente in tema di reato di falso in atto pubblico, aveva escluso la legittimità della contestazione della fattispecie aggravata di cui all'art. 476, comma 2, c.p., qualora nel capo d'imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell'atto o direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma.

Tale principio, infatti, secondo la ricostruzione operata dalla Suprema Corte, ha valenza paradigmatica per tutte le circostanze che non presentino "materialità" autoevidente, ma discendano, invece, da un'operazione valutativa che deve necessariamente compiere l'autorità giudiziaria (quale è quella, appunto, della natura fidefacente di un atto pubblico). E infatti, poiché l'ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti "deve essere verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse", incidente sul livello di precisione e determinatezza degli elementi formalmente contestati rendendoli più o meno sufficienti a "garantire la puntuale comprensione del contenuto dell'accusa da parte dell'imputato", ne deriva che la contestazione in fatto "non dia luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscano in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, invero, l'indicazione di tali fatti materiali appare idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo in tal modo possibile l'adeguato esercizio dei diritti di difesa dell'imputato".

Nel caso di specie, la Quinta Sezione ha sottolineato come la componente materiale della contestazione fosse molto forte, presente ed evidente in quanto leggibile dalla contestualizzazione unitaria di tutti i reati oggetto delle imputazioni, i quali compongono un unico, complessivo scenario di coeva realizzazione di una condotta di aggressione violenta da parte di ricorrenti ai danni della persona offesa, descritta in maniera dettagliata, nel suo carattere di lesività alla persona, nel capo di imputazione, il quale richiama i medesimi mezzi offensivi utilizzati poi anche per infierire non più solo sulla persona bensì contestualmente sulla res oggetto del danneggiamento.

Pertanto, i giudici di legittimità, facendo applicazione dei principi enunciati dalla Sentenza Sorge, hanno ritenuto confermata dagli elementi concreti della vicenda la ratio che fonda il disvalore di cui l'aggravante della violenza alla persona è espressione in relazione alla condotta di danneggiamento, ossia la maggiore pericolosità manifestata dall'agente nella esecuzione del reato, innegabile nel caso di specie, senza che un tale operazione ermeneutica possa essere stata una compressione dei diritti o una negazione delle prerogative della difesa.

Quanto all’attenuante della provocazione, la sentenza in esame ha ritenuto corretta l’esclusione della stessa da parte del giudice di prime cure alla luce dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale tale attenuante, pur non richiedendo un particolare legame temporale di derivazione immediata tra azione ingiusta subita e reazione, tuttavia, anche nelle forme della provocazione cd. "per accumulo" (in cui il fattore tempo scolora nella condizione di accumulo di rancore determinato dalla reiterazione di comportamenti ingiusti), richiede la prova dell'esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l'esplosione, in relazione ed in occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo.

La circostanza deve ritenersi in ogni caso esclusa, pur in presenza di fatti apparentemente ingiusti della vittima, qualora la reazione appaia sotto ogni profilo eccessiva e talmente inadeguata rispetto all'ultimo episodio dal quale trae origine da fare escludere la sussistenza di un nesso causale tra offesa, sia pure potenziata dall'accumulo.

I giudici della Quinta sezione hanno, altresì, ribadito il principio consolidato in tema di circostanze attenuanti generiche, in relazione alle quali il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione, sottolineando come di tale principio sia stata fatta applicazione nella sentenza di primo grado. Il contesto in cui avevano agito gli imputati si era distinto per la violenza e la gravità della condotta, per l'elevata capacità a delinquere degli imputati, percepibile dalle modalità con le quali sono stati commessi i reati, nonché per la pervicacia e violenza mostrate nel perseguire il proprio proposito criminoso, tutti indici indicati dal giudice di prime cure e rispetto ai quali i precedenti penali costituiscono una delle ragioni già di per sé adeguate di diniego e non manifestamente illogiche, da ciò discendendo l’irrilevanza del tema della loro congruenza.


LA SOLUZIONE

La Quinta Sezione della Corte di Cassazione, dunque, alla luce dei principi sopra enunciati in tema di circostanza attenuante della provocazione, per la quale occorre la prova dell'esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l'esplosione, in relazione ed in occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo, nonché in tema di circostanze aggravanti del delitto di danneggiamento e delle circostanze attenuanti generiche, ha rigettato i ricorsi con condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali.


Segnalazione a cura di Tiziana Caboni





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