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Diritto Penale

ILLECITO TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI - REATO PERMANENTE Corte di Cass, sez. III, 17 ottobre 2019

Aggiornamento: 23 dic 2019

LA MASSIMA In tema di illecito trattamento dei dati personali, la condotta di diffusione di dati protetti ex art. 167 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto destinata a raggiungere un numero indeterminato di soggetti, ha natura di reato permanente, caratterizzandosi per la continuità dell’offesa derivante dalla persistente condotta volontaria dell’agente, il quale potrebbe far cessare gli effetti antigiuridici in ogni momento, rimuovendo i dati personali resi ostensibili ai frequentatori del social network.

IL CASO La Corte d’appello di Catania confermava la condanna decisa in primo grado nei confronti del ricorrente, ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 81 c.p. e 167 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, per aver utilizzato illecitamente i dati personali della donna con cui aveva avuto una relazione in passato. Nella specie, l’uomo creava un falso profilo e iscriveva la vittima al sito di un social network per incontri, dal 15 al 29 maggio 2010. Fra i motivi di ricorso in Cassazione, si lamentava la violazione di legge, non avendo la Corte d’appello rilevato che la creazione dell’account in data 27 aprile 2010 costituiva il momento di consumazione della fattispecie, con conseguente spirare del termine di prescrizione in data anteriore alla sentenza di secondo grado.

LA QUESTIONE La Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa al tempus commissi delicti e al momento perfezionativo della fattispecie penale di cui all’art. 167 d.lgs. 196 del 2003, nel testo vigente ratione temporis. Secondo la difesa, infatti, si tratterebbe di reato istantaneo, in quanto l’evento si compiva e spiegava interamente i propri effetti nel momento in cui veniva creato il falso profilo della donna. Viceversa, non rileverebbe ai fini della colpevolezza la perdurante esposizione dei dati sul social network, avendo il ricorrente già realizzato tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie allora contenuta all’art. 167 d.lgs. 196 del 2003. Come esaminato dalla Corte di Cassazione, quest’ultima incriminava la condotta di colui che, al fine di trarre profitto per sé o per altri o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali, in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129 del decreto.

LA SOLUZIONE Innanzitutto, la Corte di Cassazione analizza la disciplina allora vigente, riproponendo le definizioni di dato personale e di trattamento, di cui all’art. 4, comma 1, lett. b) e a). Nozioni oggi rispettivamente riprodotte all’art. 4, nn. 1 e 2, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, richiamato nell’attuale formulazione dell’art. 1 d.lgs. 196 del 2003. Dopo aver ricostruito il quadro normativo vigente all’epoca dei fatti, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso, essendo la prescrizione maturata in epoca successiva alla sentenza di secondo grado. I giudici pervengono a tale decisione dopo aver ribadito la distinzione tra reati istantanei e reati permanenti. Nei primi l’azione antigiuridica si compie e si realizza definitivamente con il verificarsi dell’evento, mentre gli effetti antigiuridici dei secondi non cessano con la realizzazione dell’evento, ma permangono nel tempo per l’impulso dell’intenzionale condotta del reo. Di conseguenza, in tema di illecito trattamento dei dati personali, l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma ha carattere continuativo, sussistendo fino a quando persiste la condotta volontaria dell’agente. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione aderisce alla prevalente teoria della condotta, così da valorizzare l’elemento volitivo dell’agente, che avrebbe potuto interrompere l’azione lesiva in qualunque momento rimuovendo l’account. Ne deriva che, ai fini del calcolo della prescrizione, deve considerarsi il giorno in cui è cessata la violazione e non il precedente momento nel quale questa ha avuto inizio, trattandosi di reato permanente. L’adesione alla teoria della condotta spiega i propri effetti anche in relazione al tempus commissi delicti e alla questione della successione delle leggi penali nel tempo. In caso di reato permanente, infatti, non troverà applicazione la disciplina vigente al momento in cui la condotta ha avuto inizio, bensì quella introdotta prima dell’ultimo atto volitivo dell’agente. Infatti, qualora si adottasse la teoria dell’evento o la teoria mista, si rischierebbe un contrasto con il principio di colpevolezza, attribuendo all’autore la responsabilità per conseguenze da lui non volute e, pertanto, non sorrette dall’elemento soggettivo.


a cura di Erik Giachello




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