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Diritto Penale

CORRUZIONE - Cass., Sez. VI, 8 settembre 2021, sentenza n. 33251

LA MASSIMA

"Lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente del primo a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, e remunerato con la promessa o dazione di danaro o di altre utilità da parte degli altri, sinallagmaticamente connessa all’esercizio della funzione, è sufficiente ad integrare il reato, pur in mancanza del compimento di uno specifico atto e della contrarietà o meno di quest’ultimo ai doveri del pubblico agente".


IL CASO

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ha impugnato la sentenza con la quale, medesimo Collegio territoriale, in riforma della condanna pronunciata dal Giudice per l’Udienza Preliminare, aveva mandato assolti gli imputati dal reato di corruzione per l’esercizio della funzione, loro contestato nelle rispettive qualità di privato corruttore e pubblico ufficiale.

Nella prospettazione accusatoria, il primo avrebbe corrisposto al secondo del denaro perché questi agevolasse il rilascio di un’autorizzazione edilizia e che quest’ultimo, non appena ricevuto l’anzidetta somma, si fosse attivato in tal senso. Non risultava dimostrato, tuttavia, che, in ragione dell’antescritto interessamento, la pratica avesse avuto svolgimento irregolare.

Ebbene, la Corte d’Appello, pur qualificando come illecita la ridetta dazione di denaro, poiché non altrimenti giustificata dalle risultanze in atti, e pur ritenendo accertato il nesso causale tra la stessa e l’immediato interessamento del pubblico ufficiale, ha escluso la configurabilità della contestata corruzione, poiché non risultava dimostrata la necessaria relazione di stabile asservimento del pubblico funzionario agli interessi personali del privato.

Avverso la pronuncia di secondo grado, dunque, ha proposto gravame il Procuratore generale, deducendo, anzitutto, il vizio di motivazione della sentenza, all’uopo deducendo l’inconciliabilità dell’esito assolutorio con le ritenute premesse dell’illiceità della dazione di denaro. Con distinto motivo il ricorrente ha altresì censurato l’erronea applicazione dell’articolo 318 del codice penale, argomentando che il perfezionamento della pratica edilizia in questione avrebbe richiesto il compimento di una pluralità di atti d’ufficio, di fatto mai verificatisi, alla cui sollecita evasione doveva ritenersi strumentale l’elargizione de qua.


LA QUESTIONE

La Cassazione, con la pronuncia in esame, è chiamata a chiarire se la fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione presupponga necessariamente un impegno permanente dell’agente pubblico alla prestazione di una serie indeterminata di atti d’ufficio o di servizio in favore di un terzo interessato, ovvero se, per altro verso, sia sufficiente anche una sola ed esclusiva dazione causalmente ricollegata al compimento di un singolo atto, atteso che la norma mira a sanzionare la violazione del dovere di fedeltà del pubblico funzionario.


LA SOLUZIONE

Al fine di dirimere la questione sottoposta al proprio vaglio, la Corte muove dalla genesi dell’attuale formulazione dell’art. 318 c.p., così come riformato dalla legge n. 190 del 2012.

Osserva il Collegio che il legislatore, facendosi carico delle tensioni interpretative manifestatesi durante la vigenza del precedente testo dell’art. 318 del codice penale, che ricollegava la sanzione esclusivamente al compimento di uno specifico atto dell’ufficio, ha inteso estendere la tutela penale alle ipotesi di corruzione sistemica, e cioè quelle non legate ad una specifica prestazione da parte del pubblico agente, ma, piuttosto, alla messa a disposizione della propria funzione per gli interessi di terzi. Così facendo, la ridetta legge n. 190/2012 prende atto e statuisce che la distorsione potenziale del concreto esercizio della funzione, da sé sola, è sufficiente a ledere il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione.

Ciò posto, la Corte precisa altresì che la novella, così interpretata, non ha inteso in alcun modo escludere dal perimetro della norma incriminatrice le ipotesi, già sanzionate in precedenza, in cui il patto corruttivo fosse diretto ad uno specifico atto del pubblico agente o ne costituisse la remunerazione successiva. Ed infatti, la formulazione testuale attualmente vigente è volutamente ampia, nell’esplicito intendo di ricomprendervi tanto la vendita del singolo atto, quanto quella, più generale, della funzione in senso lato, come pure la corruzione antecedente, al pari di quella susseguente.

Pertanto, prosegue la Cassazione, interpretare la disposizione dell’attuale art. 318 c.p. nel senso che, per la configurabilità del reato, l’elemento decisivo sia costituito dalla protrazione nel tempo del rapporto corruttivo e non, invece, dal mercimonio della funzione, ancorché legato al compimento di un unico e specifico atto, significa rovesciare l’intentio legis, peraltro senza il minimo conforto della lettera della norma, nella quale non si rinviene alcun riferimento al carattere reiterato del rapporto tra pubblico agente corrotto e privato corruttore.

Sulla scorta delle suesposte considerazioni, pertanto, la Corte ha annullato la sentenza di gravame, disponendo altresì il rinvio degli atti al giudice di merito.


Segnalazione a cura di Nicola Pastoressa





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