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Diritto Penale

CONFISCA PER EQUIVALENTE - PROFITTO - Cass. Pen., sez. VI, 1 aprile 2021, sentenza n. 12609


LA MASSIMA

“Quando l’illecito penale si innesta episodicamente in un’attività imprenditoriale lecita, specie nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica, la quantificazione del profitto confiscabile non corrisponde necessariamente all’utile lordo conseguito dalla società nel periodo in cui è stata coinvolta in un patto corruttivo. Infatti, la remunerazione di una prestazione lecita, ancorché eseguita nell’ambito di un affare illecito, non può ritenersi sine causa o sine iure e, quindi, non costituisce profitto di un illecito, ma profitto avente titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e, pertanto, non confiscabile”.


IL CASO

La vicenda in esame trae origine da un ricorso proposto avverso un’ordinanza del giudice di primo grado che aveva disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, di taluni beni (specie conti correnti, deposito a risparmio, dossier titoli e cassette di sicurezza) considerati il profitto derivante del reato di corruzione propria (art. 319 c.p.) e dall’illecito di cui all’art. 25, co.2 D. Lgs. 231/2001. Tre i motivi di doglianza proposti dal ricorrente.

Con il primo motivo si deduceva la violazione dell’art. 27 c.p.p. in quanto il giudice competente a procedere, a seguito della trasmissione dell’incartamento al suo uffico, non aveva confermato i decreti di sequestro nel termine di venti giorni, previsto a pena di inefficacia della misura originariamente adottata. Con il secondo, invece, si lamentava la violazione delle norme processuali in tema di inutilizzabilità degli atti compiuti dopo il decorso del termine di durata delle indagini preliminari. Infine, si contestava la violazione di legge quanto alla determinazione del profitto e del nesso di derivazione tra i beni sequestrati e il reato di corruzione.


LA QUESTIONE

Le questioni giuridiche affrontate investono il tema della confisca per equivalente, specie la nozione di profitto derivante a reato (la sua quantificazione) e il nesso che deve sussistere tra la res sottoposta al vincolo cautelare e il reato per cui procede. La giurisprudenza consolidata ha recepito un significato giuridico di profitto o provento di reato - funzionale alla confisca - molto più ampio rispetto a quello economico-aziendalistico, capace di accogliere al suo interno “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa” (Cass., Sez. U., 30 gennaio 2014, n. 2014, Gubert). Il requisito della «pertinenzialità» tra reato e profitto rappresenta, quindi, il criterio che deve orientare l’interprete (Cass. SS.UU., 25 ottobre 2007, n. 20208). Sulla base di questa premessa, si pone il problema della quantificazione del profitto confiscabile, avendo particolare riguardo alla responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica. Un importante principio di diritto è stato enunciato dalle Sezioni Unite “Fisia Impianti” in tema di sequestro finalizzato alla confisca - sanzione, prevista dagli artt. 19-53 D. Lgs. n. 231 del 2001. Nell’occasione, è stato affermato che la nozione di “profitto confiscabile” è diversa e più ristretta di quella di profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 D. Lgs. 231/2001 evocando, solo quest’ultimo, un concetto di profitto “dinamico”, rapportato alla natura e al volume dell’attività d’impresa e comprensivo dei vantaggi economici anche non immediati. Per cui, non può ritenersi profitto del reato, e come tale non è legittimamente confiscabile, il “corrispettivo di una prestazione lecita, regolarmente eseguita dall’obbligato” (Cass. Sez. U., 27 marzo 2008, n. 26654).


LA SOLUZIONE

Con la sentenza in commento, la Cassazione dichiara fondato il ricorso limitatamente al terzo motivo. Quanto all’asserita violazione dell’art. 27 c.p.p., il Collegio chiarisce che l’inosservanza del termine di venti giorni, di cui all’art. 27 c.p.p., non origina né una sanzione processuale - che colpirebbe la sfera dei poteri del giudice rimasto inerte - e neppure una preclusione, ovvero la perdita di un potere processuale, non potendo affermarsi nella specie che il giudice abbia già esercitato, consumandolo, detto potere. Il predetto termine attiene solo all’esecutività della misura adottata ma non concerne il potere-dovere del giudice competente di emettere una nuova ordinanza cautelare. Infatti, il giudice a cui sono trasmessi gli atti ha facoltà di emettere, sulla base di un’autonoma valutazione delle condizioni legittimanti, ancorché desunte dagli stessi fatti, un provvedimento cautelare che ha una autonomia strutturale rispetto al precedente ad effetti interinali e che in realtà solo impropriamente può considerarsi di “conferma” o di “reiterazione” di quello precedente. Rispetto al secondo motivo, la Corte lo dichiara inammissibile per aspecificità. La circostanza che l’adozione di taluni atti investigativi fosse successiva al decorso del termine delle indagini preliminari, di cui all’art. 405 c.p.p., non era sorretta da specifico motivo di ricorso. Nel caso di specie, i giudici ricordano che è possibile che un’informativa di P.G. sia ricognitiva di atti già esistenti, accompagnandosi ad altri atti che attribuiscano a quelli già presenti nel fascicolo del P.M. una valenza diversa e maggiore rispetto a quella che era stata riconosciuta loro.

Il terzo motivo (sulla quantificazione del profitto derivante dal delitto di corruzione) viene dichiarato parzialmente fondato, posto che il giudice di appello vi aveva ricompreso anche i proventi economici derivanti dalla stipulazione di taluni negozi giuridici (leciti) con terzi. La Corte, seguendo gli orientamenti di cui sopra, afferma che i contratti stipulati dalla società e i soggetti terzi rispetto al patto corruttivo non possono essere considerati nulli ex art. 1418, co. 1 c.c., atteso che la loro conclusione e il loro contenuto non sono illeciti e la loro struttura non è frutto di alcuna violazione di legge. In tale ipotesi, le programmazioni contrattuali non coincidono con il fatto corruttivo ma, semplicemente, presuppongono l’illecito, nel senso che la loro ragione trova collocazione, in tutto o in parte, nel patto corruttivo stipulato da uno dei contraenti con un altro soggetto.


Segnalazione a cura di Anna Onore




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