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Diritto Penale

COLPA MEDICA - LINEE GUIDA - Cass. Sez. IV, sent. n. 15258 del 2020

LA MASSIMA


"La perizia è connotato di attività che richiedono competenze tecnico-scientifiche o che presentano un grado di complessità più elevato della norma per le particolari situazioni del contesto; l'agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, propone in via elettiva errori determinati da imperizia, sicchè l'eventuale negligenza o imprudenza deve essere accertata specificamente, in base a pertinenti dati fattuali che ne attestano la ricorrenza".


“Nell'apprezzamento del grado della colpa del sanitario, deve tenersi conto della natura della regola cautelare la cui inosservanza gli si rimprovera, avendo incidenza sulla maggior o minore esigibilità della condotta doverosa che egli possa limitarsi a conoscere la regola ed applicarla o, al contrario, sia chiamato a riconoscere previamente le condizioni che permettono di individuare le direttive comportamentali, che rendono doverosa l'adozione della misura, che consentono di individuare quale misura adottare".


IL CASO


La Corte di appello di Catania ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Catania con la quale Caio e Sempronia sono stati giudicati responsabili del reato di cui all'art. 589 cod. pen., in relazione alla morte di Tizia, cagionata nelle rispettive qualità di specialista radiologo e di medico di pronto soccorso. La Corte di appello, in particolare, ha negato che gli imputati fossero incorsi in mera imperizia e che la loro colpa fosse stata di grado lieve, così escludendo tanto l'applicazione dell'art. 3 della legge n. 189/2012 che dell'art. 590-sexies cod. pen., introdotto dalla legge n. 24/2017.

Le conclusioni a cui è giunta la Corte si sono basate sulla misura della divergenza tra condotta doverosa e condotta concretamente tenuta da Caio e da Sempronia: i giudici di merito hanno ritenuto la condotta dei medici gravemente colposa, qualificandola in termini di imperizia e di negligenza, poiché Caio si è discostato in modo ragguardevole dalle linee guida, mentre Sempronia ha tenuto un comportamento non conforme ai protocolli terapeutici.


Entrambe le difese degli imputati hanno proposto appello avverso la sentenza con motivi sostanzialmente analoghi.

Secondo gli appellanti, infatti, l’iter motivazionale della Corte sarebbe affetto da molteplici vizi: in primo luogo il collegio non ha valutato quali fossero le linee guida al momento del fatto; in secondo luogo non avrebbe considerato le specificità del caso concreto; infine avrebbe affermato in modo tautologico che vi è stata imperizia e quindi negligenza, senza specificare in che modo i medici si sarebbero discostati dalle linee guida.

Il vizio motivazionale si è tradotto anche nella erronea applicazione dell'articolo 3 citato, specie per quanto attiene alla limitazione alla sola imperizia dell'ambito applicativo della legge Balduzzi. A questo riguardo il ricorrente rammenta l'evoluzione giurisprudenziale che ha condotto a ritenere applicabile la menzionata disposizione anche all'ipotesi di negligenza.


LA QUESTIONE


La Corte è chiamata a delineare le coordinate per svolgere un giudizio sulla colpa del medico per aver causato l’evento infausto, affinchè esso non sfoci una mera tautologia, svincolata dal caso concreto.

Il collego, infatti, deve precisare la differenza fra le diverse tipologie di colpa, in particolare fra imprudenza e imperizia, nonché fra i differenti gradi di colpa, grave, lieve e lievissima.

Infine la Corte deve chiarire quale rilevanza abbiano le linee guida e le direttive nel giudizio sulla responsabilità e in che misura il medico possa discostarsene.


LA SOLUZIONE


La Corte ha ritenuto fondate le censure mosse dagli appellanti.


La Corte, prima di entrare nel merito delle questioni, ha richiamato le linee essenziali della colpa medica così come disciplinata prima dall’art. 3 del d.l. n.158/12 e poi dall’art. 5 della legge n. 124/17, che ha introdotto il nuovo art. 580-sexies c.p.

Quanto all’art. 3 del d.l. 158/12, nonostante le notevoli difficoltà interpretative la giurisprudenza di legittimità ne ha definito con sufficiente nitidezza i contenuti precettivi, tra i quali meritano esplicita menzione in questa sede, per la maggiore attinenza ai temi che saranno trattati:

- la limitazione della responsabilità del medico alla ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall'imperizia, secondo l'interpretazione che infine è risultata prevalente nella giurisprudenza di legittimità;

- l'"abolitio criminis" parziale degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo l'art. 3, comma 1 ristretto l'area del penalmente rilevante rispetto alla fattispecie 'comune';

- grava sull'accusa l'onere di dimostrare che ricorrono le condizioni per la rilevanza penale del fatto contestato e quindi che la condotta colposa non è stata tenuta attuando linee guida pertinenti al caso concreto, o che si è in presenza di colpa grave.

Il sopraggiungere dell'art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall'art. 5 della legge n. 24/2017, ha peraltro determinato un nuovo cambio di scenario. In estrema sintesi, e sempre limitando i richiami a quanto di maggiore attinenza ai fini della presente trattazione:

a) la nuova fattispecie ha natura giuridica di causa di non punibilità;

b) essa trova applicazione nei soli casi di imperizia;

c) la colpa del sanitario è suscettibile di irrilevanza penale solo se di grado lieve


Data l’incidenza delle due diverse discipline sulla medesima materia la Corte ha altresì chiarito quale

sia applicabile ai sensi dell'art. 2, comma 4 cod. pen. Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite, l'abrogato art. 3 comma 1, del d.l. n. 158/2012, si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590-sexies cod. pen., sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto.


Ne deriva che qualora il giudice di merito debba pronunciarsi in merito alla responsabilità dell’esercente la professione medica per l’evento infausto causato nel praticare l’attività, dovrà compiere una motivazione articolata nella quale venga indicato :

1) se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali;

2) specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza);

3) appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle pertinenti linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziale e più in generale quale sia stato il grado della colpa;

4) ove il reato non sia stato commesso sotto la vigenza dell'art. 590-sexies cod. pen. accertare a quale delle diverse discipline succedutesi nel tempo debba essere data applicazione, in quanto più favorevole all'imputato nel caso concreto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2, co. 4 cod. pen.


Così chiarito l’inquadramento generale della colpa medica e dei connessi doveri motivazionali del giudice, la Corte si è poi soffermata sulle questioni specifiche inerenti le linee guida o le buone pratiche delle direttive comportamentali.

Nel caso concreto, in particolare, il collegio ha esaminato i caratteri del giudizio di conformità dell'operato del sanitario alle linee guida o all'alternativo referente cautelare prevalente; e il richiamo alla necessaria emersione, nel contesto motivazionale, della valutazione in ordine all'adeguamento che quelle direttive eventualmente imponevano per poter rispondere alle necessità del caso concreto.

In primo luogo la Corte ha precisato la diversa portata delle linee guida nel decreto Balduzzi e nella legge Gelli-Bianco.

Sotto la vigenza del d.l. 158/12, poteva assumere rilievo, escludendo la illiceità penale, tanto una colpa (lieve) per l'adesione a linea guida inadeguata, sia una colpa (lieve) nell'adesione, ovvero applicando le raccomandazioni contenute nelle linee guida (genus nel quale potrebbe farsi rientrare, oltre all'adattamento alle specificità del caso concreto - cd. adempimento imperfetto - anche l'errore di esecuzione).

Mentre nel nuovo quadro delineato dal nuovo 590-sexies c.p. la non punibilità può essere riconosciuta solo al sanitario che abbia fatto applicazione di linee guida correttamente individuate come appropriate, e che abbia errato nella loro applicazione.

La Corte, quindi, ha precisato che nel concetto di attuazione viene attratto anche quello di adattamento. Per l'opinione dominante che rinviene nelle linee guida esclusivamente o prevalentemente raccomandazioni necessariamente generiche, l'adattamento al caso specifico è pressocché indefettibile. Anche in quest'opera può insediarsi un errore; il giudice deve saperlo riconoscere e misurare. Riconoscerlo significa, necessariamente, operare la corretta qualificazione della condotta, accertando se essa sia stata negligente, imprudente o imperita.

L’esatta distinzione tra le tre forme di colpa, tuttavia, non trova un orientamento concorde né in giurisprudenza né in dottrina. In particolare allo stato della elaborazione scientifica e giurisprudenziale, la distinzione tra colpa per imprudenza (tradizionalmente qualificata da una condotta attiva, inosservante di cautele ritenute doverose) e colpa per imperizia (riguardante il comportamento, attivo od omissivo, che si ponga in contrasto con le leges artis) offre uno strumento euristico conferente, al fine di delimitare l'ambito di operatività della novella sulla responsabilità sanitaria; ciò in quanto si registra una intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela. Tale incertezza genera il rischio che venga qualificata dall'imputazione come negligenza o imprudenza una condotta che, pur presentando anche profili cui si confà tale qualificazione, ha nel proprio nucleo una imperizia.

La difficile distinzione fra le forme di colpa, peraltro, non rappresenta una mera questione teorica, poiché la nuova disciplina introdotta dall’art.590-sexies impone al giudice di rinvenire i tratti che qualifichino la condotta in termini di imprudenza, negligenza o imperizia.

La Corte, quindi, ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale, in parte mutuato dalla dottrina, secondo il quale l'imprudenza consiste in un'azione (attività positiva), laddove la negligenza si disvela in corrispondenza di un non facere. Il discrimine così definito, tuttavia, non ha convinto la Corte, poiché la negligenza può connotare un comportamento attivo e la stessa imprudenza può caratterizzare, sia pure più raramente, un comportamento omissivo. Mentre è l’origine dell’errore a consentire una precisa qualificazione del tipo di colpa imputabile al responsabile; ove persista incertezza in ordine a quell'origine, non resta che applicare il canone del favor rei, quale complemento della regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

Ciò precisato la Corte ha proposto la seguente concettualizzazione delle diverse forme di colpa: "l'imperizia è concetto proprio dell'esercizio di una professione e si configura nella violazione delle «regole tecniche» della scienza e della pratica (o leges artis) con ciò differenziandosi dalla imprudenza e negligenza alla cui base vi è la violazione di cautele attuabili secondo la comune esperienza".

Partendo da questo assunto sono state desunte le seguenti implicazioni:

a) la perizia è connotato di attività che richiedono competenze tecnico-scientifiche o che presentano un grado di complessità più elevato della norma per le particolari situazioni del contesto; essa presuppone la necessità che il compito richieda competenze che non appartengono al quivis de populo e che sono tipiche di specifiche professionalità;

b) in linea di massima, l'agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad essere valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l'uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l'evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza.

Sarà allora necessario isolare con precisione tale errore, sulla scorta di pertinenti dati fattuali che ne attestano la ricorrenza.

La Corte, quindi, ha fornito un’ esemplificazione dei principi sinora enunciati.

Un medico praticando l'epidurale penetra la cute in un punto diverso da quello prescritto dalle leges artis; egli risponderà per imperizia se aveva le cognizioni richieste dall'atto medico in merito al punto esatto nel quale introdurre l'ago; risponderà per imperizia se non ha le competenze esecutive richieste dalle leges artis; risponderà per negligenza se erra nella esecuzione dell'atto perché distolto dalla conversazione con il suo assistente.

La Corte successivamente si è soffermata sulla distinzione fra colpa lieve e non lieve.

Il diverso grado di colpa, infatti, nella legge Balduzzi viene inteso in termini innovativi: per almeno un quarto di secolo, il giudizio in ordine alla responsabilità̀ del sanitario per illecito colposo di evento si è potuto disinteressare del grado della colpa; mentre con il d.l. 158/12 “l’esercente la professione sanitaria…. non risponde penalmente per colpa lieve”.

Sulla scorta di tale disposizione, il diritto vivente non ha mai dubitato che l'enunciato sottintendesse il binomio colpa lieve/colpa grave; ma non ha chiarito se ciò significhi negare l'esistenza di un ulteriore e minor grado di colpa - la colpa lievissima – oppure se sia priva di effetto pratico la distinzione tra colpa lieve e colpa lievissima. La questione, secondo la Corte, è di sicura importanza, perché riconoscere nella fenomenologia colposa l'esistenza di una colpa lievissima ha effetto anche sulla pratica apposizione del confine tra colpa lieve e colpa grave: se essa non vale a definire il discrimine tra lecito ed illecito va comunque considerata, per evitare che nel relativo campo di azione venga fatta regredire la colpa lieve, con derivata espansione del campo della colpa grave.

La Corte, in secondo luogo, ha rilevato che la distinzione del grado di colpa connota anche la teorica dell’agente modello: nel giudizio di divergenza fra esigibile e attuato è doveroso apprezzare la concreta possibilità̀ per l'autore concreto di adeguarsi a quel modello. La Corte, infatti, ha rimarcato che dopo aver accertato la violazione della regola cautelare, occorre stabilire se quella violazione sia stata colposa; in questo secondo step deve darsi massimo spazio alla realtà dell'autore fisico e alle condizioni concrete nelle quali si è materializzato il fatto.

Ne deriva che il grado della colpa, ai fini della personalizzazione del rimprovero che può essere mosso all'agente, e quindi della sua colpevolezza, va determinato considerando: 1) la gravità della violazione della regola cautelare; 2) la misura della prevedibilità ed evitabilità dell'evento; 3) la condizione personale dell'agente; 4) il possesso di qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa; 5) le motivazioni della condotta.

Secondo la Corte, infatti, “difficoltà tecniche e concreto contesto operativo sono quindi le piattaforme fattuali che devono essere esplorate dal giudice perché possa essere espresso un giudizio sul grado della colpa (ma, occorrendo, anche sull'assenza di colpevolezza) che voglia sottrarsi al rischio di concretarsi in un mero esercizio retorico, indizio di insondabile arbitrio”.

Con specifico riferimento all'esercente una professione sanitaria, la Corte ha ribadito che si può ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento; ciò si verifica quando il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente; e quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall'impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l'addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia.

Alle coordinate sin qui tracciate la Corte ha poi aggiunto le ulteriori indicazioni date dalla prospettiva delle linee guida, esse, infatti, incidono sul giudizio di responsabilità; perciò, il collegio ha ricostruito l’evoluzione interpretativa in merito alla relazione che intercorre fra linee guida e regole cautelari ai fini dell’attribuzione della colpa.

La giurisprudenza, ancor prima del legislatore, ha scandito delle importanti direttrici, poiché ha stabilito che e linee guida non recano che indicazioni di massima, che devono essere accantonate se richiesto dal caso concreto; esse "non possono assumere il rango di fonti di regole caute/ari codificate, rientranti nel paradigma normativo dell'articolo 43 c.p”. Tale impostazione è rimasta ferma anche dopo l’introduzione della legge Balduzzi, atteso che nell’importante pronuncia Cantore, si è ribadito che "l'attività medica non è di regola governata da prescrizioni aventi propriamente natura di regole cautelari, ma è fortemente orientata dal sapere scientifico e dalle consolidate strategie tecniche ..."; "le linee guida, a differenza dei protocolli e delle cheek list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti"; "le linee guida operano come direttiva scientifica ...".

Secondo la Corte, la separazione ontologica fra linee guida e regole cautelari ha lasciato aperte numerose questioni: esistono criteri in forza dei quali il sanitario può conoscere ex ante se l'osservanza di una linea guida lo pone al riparo dal rimprovero penale? Come può accadere che una linea guida sia adeguata alla specificità del caso concreto e tuttavia debba essere adattata ad esso? Quest'opera di adattamento è essa stessa governata da regole? Attraverso quale meccanismo le 'direttive' contenute nelle linee guida possono costituire il termine di riferimento per giudicare della colposità della condotta del medico? Come mai, se esse non contengono regole cautelari - perché dovendosi predicare la doverosità della loro disapplicazione ove richiesto dalla specificità del caso concreto, mancano della prescrittività che caratterizza quelle - pure vengono in gioco nella descrizione della condotta doverosa/cautelare?

Con l’avvento della Gelli-Bianco, così come interpretata dalla S.U. Mariotti, si registra un parziale cambio di direzione.

Invero, Si afferma ancora che nelle linee guida sono contenuti "indici cautelari di parametrazione" per il giudizio penale; le si indica come "parametro per l'esatta esecuzione delle prestazioni sanitarie", per i medici e gli altri sanitari; si afferma che esse non hanno "idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti". Ma in un passaggio successivo si sostiene che sono "parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia". Epperò anche che "non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci ... di generare colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto". Ma infine: sono "regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all'obbiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente".

Ciò chiarito, la Corte rileva che, sia che si ritenga che le linee guida contengono mere raccomandazioni, dal contenuto generico e defettibile, che sta al sanitario valutare come adeguate al caso specifico e/o adattare alle particolarità dello stesso; sia che le si consideri strutturate in varia guisa e talvolta quindi come vere e proprie regole cautelari rigide, altre volte elastiche, quel che viene implicitamente messo a fuoco è l'esistenza di uno spazio valutativo affidato per intero al sanitario, che in solitudine è chiamato a individuare l'agire doveroso. Orbene, l'adempimento di questo dovere di riconoscimento della situazione di rischio e di individuazione della risposta cautelare più efficace, può risultare più o meno agevole; lo è in modo diverso a seconda che la raccomandazione/regola abbia carattere rigido e sia esaustiva o abbia carattere elastico, magari indicando presupposti definiti solo genericamente. Nel giudizio della colpa, quindi, deve essere considerata non solo l'oscurità del quadro clinico; ma anche la difficoltà del sanitario di riconoscere la situazione di rischio e individuare la misura da adottare per effetto della lacunosa positivizzazione. Come si può osservare, la natura della regola è suscettibile di incidere sulla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'evento.

Prima di concludere la Corte ha richiamato il tema degli errori cognitivi ai quali è esposto ogni decisore: il sanitario come il suo giudice. Le neuroscienze hanno ormai accreditato la tesi della inclinazione della mente umana a variare il giudizio in merito al grado di prevedibilità di un evento infausto a seconda che si conosca o meno la sua verificazione (cd. hindsight bias); e, inoltre, a considerare tanto più evitabile l'evento infausto quanto più questo è grave (cd. outcome bias). E' necessario, pertanto, che il giudice si guardi dal rischio di concludere che la prevedibilità dell'evento era agevole all'imputato per effetto della distorsione cognitiva indotta dalla conoscenza della reale verificazione dell'evento infausto. In un simile giudizio, quando non risultino disponibili indiscusse massime di esperienza, può essere d'aiuto ricorrere al contributo di scienze che permettono di acquisire stime più oggettive, sulla base delle quali apprezzare l'esigibilità della previsione da parte dell'imputato. Infine, occorre avere consapevolezza del rischio di determinare la gravità della colpa alla luce della gravità dell'evento determinatosi.

Nel caso in esame, la Corte ha rilevato gli errori di diritto e i conseguenti vizi motivazionali della sentenza del grado d’appello.

Ha affermato, senza alcuna illustrazione delle ragioni del giudizio, che gli imputati si sono mossi fuori dalle linee guida accreditate; che in ogni caso, trattandosi di errori diagnostici, essi sono connotati da negligenza o imprudenza, e come tali non sono riconducibili all'area delle linee guida, le quali contengono regole attinenti esclusivamente alla perizia.

Quanto a Caio, non ha esplicato in che modo l’imputato si sia discostato in modo ragguardevole dalle linee guida, inoltre ha identificato la forma della colpa in modo incerto, quando non errata in diritto.

Quanto a Sempronia, il giudice di merito ha descritto la condotta ma non ha chiarito perché ha ritenuto che la stessa fosse dovuta a negligenza, oltre che a imperizia. La gravità della colpa, poi, è stata affermata senza alcuna considerazione del grado di difficoltà del compito alla luce delle competenze di Sempronia, quale medico di turno del pronto soccorso. Anzi, si è fatta trasparire la difficoltà della diagnosi, affermando tuttavia che essa non autorizzava scelte attendiste. Il che può avere un senso per non escludere la colpa, non per valutarne il grado


Segnalazione a cura di Camilla Bignotti




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