LA MASSIMA “Ai fini della applicabilità della speciale attenuante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 8, conv. dalla L. n. 203 del 1991, in favore di quanti si dissocino dalle organizzazioni di tipo mafioso, adoperandosi per evitare che l'attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, non sia richiesta la formale contestazione della circostanza aggravante di cui all'art. 7 della citata Legge, occorrendo purtuttavia che dagli atti del processo emergano elementi certi ed univoci idonei a comprovare che il reato contestato all'imputato risulti di fatto commesso in presenza delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p., ovvero per agevolare l'attività del relativo sodalizio” IL CASO A seguito di giudizio abbreviato, il giudice di prime cure dichiarava la penale responsabilità di Tizio, Caio e Sempronio in ordine ai reati a loro rispettivamente ascritti. Avverso tale sentenza, i tre imputati proponevano appello. In particolare, Tizio lamentava la mancata concessione dell'attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, conv. dalla L. n. 203 del 1991, pro tempore vigente: questi, nel corso delle indagini, si era presentato agli inquirenti confessando, dapprima in dichiarazioni spontanee e poi negli interrogatori davanti al pubblico ministero e al G.I.P., di essere l'esecutore materiale del crimine e di non essersi potuto sottrarre dall'eseguire il mandato omicida, in quanto affiliato al clan mafioso X. Il giudice di secondo grado, nel riformare parzialmente la decisione del Tribunale, confermava la penale responsabilità di Tizio e insisteva nell’inapplicabilità della circostanza attenuante sopracitata, non trattandosi di delitti in contesto mafioso. Riteneva, altresì, poco attendibile la collaborazione prestata da Tizio in quanto questi nutriva palese risentimento verso i coimputati. Ed invero, per accreditarsi come collaboratore, egli non si era limitato a confermare la sua responsabilità, ma aveva coinvolto anche altri soggetti. Inoltre, le sue dichiarazioni, dal lato obiettivo, erano frutto di progressivi "aggiustamenti", anche allo scopo di compiacere gli inquirenti. Avverso tale decisione, dunque, Tizio proponeva ricorso in Cassazione deducendo un vizio di motivazione: la Corte del gravame, al fine di non concedere l’attenuante della collaborazione della giustizia, si sarebbe ostinata a negare la connotazione mafiosa dei delitti, senza valutare la caratura criminale dei soggetti in essi coinvolti, l'ambiente che ne costituiva lo sfondo e la sua innegabile appartenenza al Clan X. Inoltre, avrebbe infondatamente ritenuto inattendibile la collaborazione prestata. LA QUESTIONE Dinanzi ai giudici di legittimità, si è posta la questione dell’applicabilità o meno nei confronti di Tizio dell’attenuante della collaborazione con la giustizia. Si è chiesto, inoltre, alla Corte di controllare la valutazione attuata dal giudice di secondo grado circa l’affidabilità e attendibilità delle deposizioni rese da Tizio. A tal proposito, nella sentenza de qua, la Corte ha richiamato orientamenti giurisprudenziali consolidati in base ai quali “tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso non rientrano, quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la connessa indagine sull'attendibilità delle deposizioni, come pure delle relazioni tecnico-peritali, ovvero la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, salvo sempre - tuttavia - il controllo sulla congruità, coerenza e logicità del ragionamento giudiziale” (Cass. Pen., Sez. V, n. 51604/2017; Cass. Pen., Sez. II, n. 20806/2011 Cass. Pen., Sez. IV, n. 8090/1981). Inoltre, hanno precisato i giudici di legittimità, “se è vero che il controllo operato dalla Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, esso include il compito di verificare se quest'ultima sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento” (Cass. Pen., Sez. V, n. 1004/1999). LA SOLUZIONE Innanzitutto, con riferimento all’attendibilità delle dichiarazioni rese da Tizio, la Corte ha stabilito che i giudici di seconde cure, nel valutare anzitutto la credibilità soggettiva di Tizio e l'attendibilità oggettiva delle operate chiamate in correità, non hanno errato nell'ispirarsi a prudenza e rigore, tenuto anche conto della genesi della collaborazione, indotta più da risentimento personale, nonché dall'aspettativa di benefici premiali, che da autentica resipiscenza. Tuttavia, il ragionamento svolto, a sostegno dell'inaffidabilità del dichiarante, si presenta insoddisfacente in alcuni punti, in particolare, nella svalutazione dei riscontri esterni. “Rientra, infatti, nei compiti del giudice di merito la ricerca, e quindi la verifica, di un ragionevole equilibrio di coerenza e qualità degli elementi dimostrativi che si offrono alla sua attenzione, potendo una più debole persuasività dell'elemento dichiarativo principale essere compensata da un più elevato e consistente spessore del dato di corroborazione estrinseca” (Cass. Pen., Sez. VI, n. 20514/2010). Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza di appello a seguito delle incongruenze e illogicità motivazionali riscontrate, precisando che: “al giudice di rinvio spetterà di rinnovare la valutazione delle prove, e in ciò egli dovrà attenersi al corretto metodo - prescritto da consolidata giurisprudenza di legittimità , che è quello unitario e complessivo, che non si esaurisce in una mera sommatoria di elementi indiziari, anche di riscontro, e non può pertanto prescindere dalla operazione propedeutica, consistente nell'apprezzamento di ogni singolo elemento, ciascuno nella sua valenza qualitativa e nel suo grado di precisione e gravità, e, se del caso, dalla successiva opera di valorizzazione sintetica e globale dei medesimi elementi, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo”. Con riguardi al ricorso proposto da Tizio, la Corte lo ha dichiarato manifestamente infondato. Ed invero, al di là dell’attendibilità o meno della collaborazione con la giustizia offerta da Tizio, il giudice di secondo grado, secondo la Cassazione, aveva ineccepibilmente ritenuto che i delitti a lui ascritti si inserissero in una contrapposizione di natura personale e familiare, solo coinvolgente un esponente di un clan mafioso, ma non fossero caratterizzati né da avvalimento del relativo metodo, né da finalità di agevolazione mafiosa. Orbene, tale valutazione non può essere oggetto di rivalutazione in sede di legittimità. Infine, viene richiamato il principio, ormai consolidato, in base al quale: “ai fini della applicabilità della speciale attenuante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 8, conv. dalla L. n. 203 del 1991, in favore di quanti si dissocino dalle organizzazioni di tipo mafioso, adoperandosi per evitare che l'attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, non sia richiesta la formale contestazione della circostanza aggravante di cui all'art. 7 della citata Legge, occorrendo purtuttavia che dagli atti del processo emergano elementi certi ed univoci idonei a comprovare che il reato contestato all'imputato risulti di fatto commesso in presenza delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p., ovvero per agevolare l'attività del relativo sodalizio”. Segnalazione a cura di Gaya Carbone
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